di Rita Bettaglio
Anche nella grotta è arrivata, alfine, la settimana santa.
Essendo, poi, la grotta di una genovese, non sono mancati i canestrelli delle Palme che, una volta benedetti, sono stati sbafati in un battibaleno dagli amici della cavernicola in questione (improvvisatasi fornaia, per l’occasione).
Il mattutino del giovedì santo ci fa ascoltare le lamentazioni di Geremia profeta. Comincia così… e non riesco ad andare oltre.
Come siede solitaria la città piena di popolo! È diventata come vedova la signora delle genti, la sovrana delle province fu sottoposta al tributo! (Lam1,1).
In latino è ancora meglio: Quomodo sedet sola civitas plena populo!
Facta est quasi vidua domina gentium ; princeps provinciarum facta est sub tributo.
È Roma, mi dico, è la descrizione precisa della Città Eterna (e della Chiesa) in questo momento!
Ci sono stata un po’ di tempo fa e ho provato qualcosa che solo ora comprendo, nelle parole di Geremia.
Una città piena di popolo cristiano, una città cattedra, per volere divino, del vicario di Cristo, siede ora sola, in un’atmosfera da fine dell’impero. Ma il regno del nostro Re non è di questo mondo.
La signora (domina rende assai meglio) delle genti è diventata come vedova e sembra, talora, neppure accorgersene. Fintamente gaudente, s’imbelletta di lustrini, che attirano solo il mondo e lasciano deserta piazza san Pietro.
La regina delle province, quella sul cui impero, davvero, non tramontava mai il sole (sol justitiae), è obbligata al tributo, a un’offa gettata ad un Cerbero, non più digrignante, ma suadente e green, come le sirene di Ulisse.
La città di Dio, la dimora dell’Altissimo, Roma, fecondata dal sangue dei martiri, giace nella desolazione e non c’è chi soccorra, non est qui adjuvet (Psal 21,12).
Come nei giorni più bui della storia, quando fu messa a ferro e fuoco da ogni sorta di barbaro (nel corpo e nello spirito), Roma ci appare una regina decaduta: le sue chiese raccontano di una fede che si fa fatica a immaginare, tanto è stridente il contrasto con la realtà odierna.
Ma un fiume rallegra la città di Dio, lo sappiamo dalla Scrittura, la fede ce lo insegna.
Quale sarà mai questo fiume che non riusciamo a vedere? Non è il Tevere, di certo, perché esso scorre limaccioso e pigro, dolciastro come frutta andata a male e circondata da moscerini. Qual è, allora, questo fiume?
È la preghiera dei monaci che, umile e nascosta, si eleva a Dio giorno e notte.
È la preghiera dei piccoli che sgranano il rosario, il salterio di Gesù e Maria, il salterio del popolo.
È il sangue innocente dei martiri nel grembo materno.
Nel lontano VI secolo, san Benedetto fuggì da Roma e si diede alla vita monastica in un inaccessibile anfratto, a Subiaco. Da lì, dopo tre anni, Dio lo chiamò a riedificare la Chiesa con la fortissima stirpe dei cenobiti.
In questa quaresima ho ripercorso le stazioni quaresimali romane e mi sono resa conto che davvero la Chiesa è romana. È romana anche se non lo sappiamo e anche se c’è chi non lo ha voluto nel passato e non lo vorrebbe neppure ora. Romana perché i testi della Messa (quella che si è celebrata fino al 1969) sono stati scelti, fin dai primi secoli, in funzione delle stazioni romane, delle parrocchie romane. Perciò sono concretamente legati a un luogo e alle sue vicende. Luoghi, molto spesso, intrisi del sangue dei martiri.
La Chiesa è e resta romana, anche se Roma fosse, Dio non voglia, infestata da fiere selvatiche e basilischi (noi a Genova di basilischi ce ne intendiamo). Perché Roma è Roma. Dio stesso ha stabilito così: gallicani di ogni sorta, fatevene una ragione.
In questa settimana santa, a chi è tentato di fuggire, appaia Gesù sulla via Appia, come a san Pietro.
Quo vadis, Domine? domandò il primo papa.
Eo Romam, iterum crucifigi. Vado a Roma per essere nuovamente crocifisso. E san Pietro, che stava fuggendo, fece dietrofront.
Così sia anche per noi.
Per ora dalla grotta è tutto. Buon triduo santo!