di Marco Radaelli
Caro Valli,
i dati del ministero dell’Istruzione ci dicono che i nostri giovani escono dalla scuola con valutazioni mediamente alte. L’anno scorso l’esame di Stato è stato brillantemente superato da tutti quelli che lo hanno affrontato, con una valutazione che nel sessanta per cento dei casi ha oscillato tra l’80 e il cento su cento. Stesso discorso per le medie, dove il voto di uscita è stato pari o superiore agli 8/10 per più della metà dei diplomati. E sono dati in continuo miglioramento, anno dopo anno. Insomma, a scuola va tutto bene e noi siamo nel migliore dei mondi possibili. Sulla carta. Perché poi c’è la realtà. Che è quella dei docenti aggrediti da studenti e genitori; dei giovani disarmati di fronte alle fatiche della vita; del crollo degli apprendimenti testimoniato dall’Invalsi, che ci dice che al termine del ciclo di studi uno studente su due non comprende pienamente quello che legge e non mostra significative capacità logiche e di ragionamento. E in effetti oggi i docenti sono costretti a combattere orrori che si credevano estinti: accenti, apostrofi, punteggiatura inesistente, periodi infiniti, parole inventate, lettura stentata, conti che avvengono ancora utilizzando le dita, calligrafie che fanno perdere la vista a chi cerca di decifrarle, conoscenze ridotte al lumicino ed espresse ancora peggio. Quindi no, a scuola non va tutto bene e noi non siamo nel migliore dei mondi possibili. Al contrario, siamo di fronte a una scuola totalmente scollegata dalla realtà e che, con i suoi risultati meravigliosi, a fronte però di un evidente imbarbarimento sociale e culturale (e le due cose sono assolutamente legate) afferma qualcosa che non esiste se non sul registro elettronico.
Io però credo che il cedimento educativo di cui siamo testimoni chiami in causa non solo la scuola ma la società tutta, a cominciare dalla famiglia, prima depositaria dell’educazione dei figli. La capacità di affrontare la vita non è innata: in tema di educazione sono necessari, a scuola come fuori da scuola, adulti consapevoli del proprio ruolo, capaci di introdurre i ragazzi alla serietà e alla profondità della vita senza sconti o scorciatoie. E invece tutti sono pronti a dire che per fare fronte all’emergenza educativa “la scuola deve fare questo, la scuola deve fare quest’altro”, scaricando di fatto tutta la responsabilità educativa solo su alcuni, come se l’educazione fosse una questione soltanto scolastica. A educare, però, è tutta un’aria che si respira, dentro e fuori dalla scuola.
È ora di allargare il recinto della responsabilità e di prendere coscienza che a educare non sono solamente gli insegnanti, ma è tutto un contesto in cui la scuola è certamente chiamata a dare il proprio contributo – per quel che compete a lei – esattamente come tutti sono chiamati a dare il proprio. Per dirla con le parole di un proverbio, “per crescere un bambino ci vuole un villaggio intero”. La scuola può contribuire, ma non certo risolvere da sola i problemi della società, come invece ci si aspetta da lei. Tutti possono educare (o diseducare) in ogni momento, in ogni luogo, a ogni ora della giornata. E tutto può educare (o diseducare): un gesto curato piuttosto che uno violento, una parola opportuna oppure una buttata lì senza pensarci. Un ragazzo può imparare sempre, e può farlo da tutti. I ragazzi trascorrono a scuola solo una parte delle loro giornate. Ma la restante parte che esempi hanno davanti agli occhi?
È ora di interrogarsi un po’ di più sull’aria che i ragazzi respirano fuori dalla scuola e su quello che il villaggio sta facendo per i suoi giovani, prima di puntare il dito sempre e solo sulla scuola. Su quale terreno li fa crescere? Che cosa dice ai ragazzi quando dà visibilità a modelli fondati sull’eccesso e sull’apparenza, o quando mette sul piedistallo personaggi senza alcuna coscienza del bello e del buono? Che cosa vuole insegnare ai giovani quando mette sotto i riflettori il successo facile come stile di vita vincente, o quando è morbosamente attaccato alle vicende familiari dell’influencer di turno? Che cosa si pretende poi dalla scuola e dagli insegnanti? Che ci pensino loro? Tutti possono partecipare all’educazione dei giovani esattamente lì dove sono, facendo bene il proprio, senza sentire il bisogno di invadere la scuola per dire alla scuola quello che dovrebbe fare o di sentirsi in diritto di dire agli insegnanti come e cosa dovrebbero insegnare, cosa che invece sembra essere diventato lo sport preferito di molti, dai politici ai dirigenti e giù giù fino alle famiglie e agli studenti stessi. Come se io andassi da un chirurgo a dirgli come dovrebbe operare. E con quali risultati, poi? La scuola è stata inondata di proposte, corsi e progetti che l’hanno affossata, snaturandola dal suo vero e unico compito, che è quello di istruire, insegnare ed educare attraverso le discipline. E se ognuno iniziasse a fare il proprio, prima di dire agli altri che cosa dovrebbero fare?
Per educare un bambino ci vuole un villaggio intero. Ma il villaggio cosa sta facendo per questo?