di Rita Bettaglio
Succisa virescit: ciò che è stato tagliato rinasce e verdeggia.
Questo è il motto dell’abbazia di Montecassino, ma è valido per tutto il mondo benedettino. Scacciati dai loro monasteri, messi in fuga, percossi, i figli di san Benedetto sono sempre rifioriti. Poteva essere una guerra, un terremoto, potevano essere ingiuste leggi di soppressione: qualunque fosse la causa, l’albero benedettino ha sempre attecchito nuovamente, magari altrove, impollinando altri luoghi col buon seme della vita monastica.
Perché, dice la Santa Regola, i cenobiti sono il fortissimum genus, la stirpe più forte tra i monaci: come si fa, infatti, a divenire forti, fortissimi, se non combattendo?
Bisogna essere testardi per diventare benedettini, caparbi nel perseguire silenziosamente il bene che passa, anzitutto, per la lotta contro l’uomo vecchio e le sue passioni. San Benedetto, infatti, raccomanda che non sia consentito facilmente l’ingresso in monastero a chi lo chiede.
Succisa virescit, quindi, vale per ogni monaco, e anche per ognuno di noi.
Potare, tagliare, rimondare è proprio del divino Giardiniere, e non opporre resistenza lo è di chiunque, monaco o no, desideri farsi trasformare da Cristo in una creatura nuova, che porti nuovi frutti fragranti.
Ego sum vitis vera, et Pater meus agricola est. Omnem palmitem in me non ferentem fructum, tollet eum, et omnem qui fert fructum, purgabit eum, ut fructum plus afferat. Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiuolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto egli lo recide, e ogni tralcio che porta frutto lo rimonda, perché ne produca anche più (Gv 15,1-2). Ogni commento è superfluo. Ognuno di noi quanto la vita stessa si occupi di potarci.
Nella grotta è arrivata la primavera e con essa un personaggio che vi s’aggira silenzioso. È un monaco che pare emerso dai tempi del diluvio: mi ha detto che per buona parte della sua vita ha fatto l’infermiere. Un collega, dunque! Questo me lo rende già simpatico e favorisce il mio interesse per lui.
Non è di molte parole il monaco, questo si sa, però è paziente. A furia d’insistere sono riuscita a fargli sputare il suo nome. Si chiama Doroteo di Gaza, san Doroteo di Gaza ad essere precisi. Schivo come ogni buon monaco, egli dà degli insegnamenti spirituali semplici e puliti, che è un piacere ascoltare. Filano lisci come una buona bibita ristoratrice.
Parla poco, ma, quando lo fa, trascina. Alla fine mi faccio coraggio e gli chiedo: padre, per favore, può ripetere? Vorrei prendere appunti per fissarmi bene ciò che ha detto. Niente da fare, lui tira dritto e io a inseguirlo per la grotta. Ad ogni insegnamento, infatti, cambia pietra su cui sedersi e io mi arrabatto dietro a lui, mentre mi cascano quaderno, biro, occhiali. Sant’uomo.
Ma che c’entra, direte voi, coi benedettini, lui che visse nel cenobio di Seridos vicino a Gaza nel VI secolo, discepolo di Barsanufio e Giovanni il Profeta?
C’entra perché sono tutti uomini della stessa stirpe, di quella stirpe di violenti di cui parla Gesù stesso. Regnum cælorum vim patitur, et violenti rapiunt illud (Mt 11,12): il Regno dei cieli subisce violenza e i violenti se ne impadroniscono. Chi sono questi violenti? Sono anzitutto quelli, come i monaci, che fanno violenza a se stessi, per “tornare attraverso la solerzia dell’obbedienza a Colui dal quale ti sei allontanato per l’ignavia della disobbedienza” (Regola di san Benedetto, Prol. 2). Questi tali sono coloro che “avendo deciso di rinunciare alla volontà propria, impugnano le fortissime e valorose armi dell’obbedienza per militare sotto il vero re, Cristo Signore” (Prol.3).
Ecco cosa mi ha detto Doroteo solo pochi giorni fa.
“I Padri, oltre alle altre virtù, portarono in dono a Dio la verginità e la povertà e crocifissero il mondo per se stessi e poi hanno lottato anche per crocifiggere se stessi per il mondo, come dice l’Apostolo: per me il mondo è stato crocifisso e io per il mondo. Che differenza c’è? Il mondo viene crocifisso per l’uomo quando l’uomo rinuncia al mondo e si mette a vivere da solo, abbandonando genitori, ricchezze, beni, affari, dare e avere: allora il mondo viene crocifisso per lui perché egli lo ha abbandonato (…). Come viene crocifisso l’uomo per il mondo? Ciò avviene quando, dopo essersi allontanato dalle cose, egli lotta contro i piaceri stessi, contro gli stessi desideri delle cose e contro le proprie volontà e mortifica le sue passioni (…) Abbiamo creduto di uscire dal mondo e di abbandonare i suoi beni, veniamo in monastero ed ecco: diamo soddisfazione alle inclinazioni del mondo con cose di poco valore. E ciò ci capita per la nostra grande stoltezza. (…) Non dobbiamo fare così”.
Questo non è solo per i monaci, ma per tutti: quante volte ci pare di fare cose nobili, di darci con tutti noi stessi a Dio, al bene e al prossimo ma restiamo attaccati invisibilmente a ciò che intendevamo sinceramente lasciare? Non è cosa che possiamo fare da soli, perché il nostro giudizio è sempre soggettivo e afflitto da un fortissimo errore di parallasse.
Per insegnarmi questo, penso, la divina Provvidenza ha mandato san Doroteo nella mia grotta. Ciò che dice mi scuote e non mi lascia tranquilla. Deo gratias.