di Michela Di Mieri
Del giullare di Dio, il grande san Francesco d’Assisi, patrono d’Italia, si è detto di tutto, specie in questi ultimi anni, da quando è diventato di gran moda utilizzarne il presunto ecumenismo ed ecologismo ante litteram, da parte di una gerarchia ecclesiastica quanto mai desiderosa di accreditarsi agli occhi della gente che piace. L’episodio, notissimo, che vi propongo come settima favola vera, ci parla di un uomo che, sebbene mosso a pietà per il dolore nel quale la creazione tutta è piombata dal peccato originale in poi, non ha mai confuso quanto si deve al Creatore e quanto, invece, alle creature, né ha mai sovvertito la gerarchia che ha posto, nel bene e nel male, Adamo al vertice “del gran mare dell’essere”, come Dante chiamava ciò che esiste sulla terra.
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Francesco si chinò a osservare quell’osso bianco che giaceva tra le foglie, con accanto un lembo di quello che sembrava il vestito di un bambino. Si passò le mani sul viso e sospirò profondamente, mentre constatava che sì, quel piccolo ossicino scarno e lucido aveva tutta l’aria di appartenere a un bambino, uno di quelli che, in quell’ultimo periodo, mentre andavano a raccogliere legnetti o a giocare nel bosco prospiciente la cittadina di Gubbio, non erano più tornati, e dei quali erano stati ritrovati solo vestiti a brandelli e qualche misero resto sparpagliato nella vegetazione.
E così i bambini, le donne e gli anziani non si avventuravano più nella foresta. Soltanto gli uomini adulti, armati di pale, bastoni e forconi, si arrischiavano ad attraversare il bosco quando la necessità li costringeva, ma lasciando i congiunti con il cuore in gola e stringendo gli arnesi stretti nei pugni, mentre il sudore imperlava la fronte e la tensione li rendeva pronti alla difesa, come animali braccati.
Un lupo. Un solo lupo era stato capace di fare tutto questo.
Era da qualche mese, dall’inverno – quell’anno particolarmente rigido sulle colline umbre -, che l’animale aveva eletto gli abitanti di Gubbio come la sua riserva di caccia e, da quel momento, la vita della gente era cambiata. Basta con le feste e le danze nelle radure la domenica pomeriggio, con i tramonti dei fidanzati al riparo di un albero, le passeggiate, i giochi, le corse, la caccia ai piccoli volatili o alle lepri, la raccolta della legna e dei fiori: era troppo pericoloso. Il predatore si poteva nascondere ovunque, e balzava fuori all’improvviso, senza il minimo rumore, per ghermire la sua preda al collo con colpo sicuro, quindi immobilizzarla e affondare le zanne nella tenera carne, finché la vita non avesse abbandonato il corpo.
Ed era ben furba quella bestia! Quanto doveva avere inscritto nell’istinto l’antica conoscenza con gli uomini! Perché essa ben sapeva chi attaccare. Tanto era spavalda con un bambino o una persona debole e indifesa, quanto era in grado di starsene nascosta senza emettere un fiato quando gli uomini, armati di bastoni, cani e fuochi, di giorno, di notte, gli davano la caccia.
Non si sarebbe mai fatto braccare: lui, il lupo, il re dei boschi, conosceva l’uomo e il suo alleato cane da millenni. Quelli non lo sapevano, ma, perfettamente mimetizzati con i cespugli e nel più assoluto silenzio, i suoi acuti occhi gialli li seguivano, durante quelle maldestre battute, senza mai perderli di vista, anticipando le loro mosse e rimandandoli a casa più stanchi e arrabbiati di quando erano partiti.
Non era possibile andare avanti in quel modo. Gli abitanti, esasperati e disperati per la situazione, avevano deciso di chiamare in loro aiuto quel frate mendicante che tutti conoscevano, che si diceva avesse la capacità di farsi capire dagli uccelli e dalle altre bestie, per vedere se lui fosse in grado di liberarli da questo “lupo grandissimo, terribile e feroce”, come ce lo descrive il Fioretto numero 23.
E così, frate Francesco andò a Gubbio e ascoltò le voci supplichevoli dei contadini, gli strazi delle madri e le preoccupazioni dei priori, e “avendo compassione santo Francesco agli uomini della terra, sì volle uscire fuori a questo lupo, bene che li cittadini al tutto non gliel consigliavano; e facendosi il segno della Santissima Croce, uscì fuori della terra egli co’ suoi compagni, tutta la sua confidanza ponendo in Dio. E, dubitando gli altri di andare più oltre, santo Francesco prese il cammino verso il luogo dove era il lupo”.
Davanti ai poveri resti che tanta pena gli avevano suscitato, Francesco capì che doveva essere arrivato vicino alla tana, perciò si mise a sedere su un masso e attese, in un silenzio gravido di tensione. Perché il lupo, in verità, già da qualche minuto stava tenendo d’occhio quello strano umano, magrissimo, dall’aspetto maschile, eppure privo di armi o fuochi, che sembrava avere l’aria di cercare proprio lui. E questo, nell’antica memoria del suo istinto, non era riconducibile a nulla di noto, per cui doveva essere più guardingo e pronto all’attacco che mai. Alle spalle del frate, si udì un ringhio sordo, profondo, asciutto come la notte. Francesco si alzò, si girò, ma non vide nulla. Cercò con gli occhi veloci, e fermò lo sguardo nella direzione in cui gli parve di udire un fruscio. Ecco un altro ringhio, proveniente dalla direzione opposta: fece appena in tempo a scorgere una macchia grigia che si stava avventando su di lui con un orribile latrato e, richiamando a sé tutto il suo sangue freddo, a tracciare nell’aria un segno di croce, gridando: “In nome di Dio, lupo, fermati!”. L’animale si arrestò di colpo, stravolto dallo stupore e dal terrore. Le zampe salde nel terreno, il pelo irto sulla schiena, la testa leggermente abbassata rispetto alle spalle, le labbra alzate a mostrare i denti in un ringhio continuo e minaccioso, gli occhi incollati al respiro del frate.
Francesco, ripreso il fiato, ne notò innanzitutto la magrezza estrema e constatò che doveva essere un lupo oramai anziano, forse scacciato dal branco per aver perduto il suo status gerarchico, scalzato da un esemplare più giovane.
Il santo ripete il segno di croce davanti al lupo, più e più volte, ed ecco che questi si fa meno aggressivo, lentamente le pieghe delle labbra si distendono, il pelo si abbassa e il ringhio lascia il posto a un uggiolato che richiama alla pace.
Allora Francesco capisce che l’animale è pronto, adesso può ascoltare, e comincia: “Frate lupo, tu fai molti danni in queste parti, e hai fatti grandi malifici, guastando e uccidendo le creature di Dio sanza sua licenza, e non solamente hai uccise e divorate le bestie, ma hai avuto l’ardire d’uccidere uomini fatti alla immagine di Dio; per la qual cosa tu se’ degno delle forche come ladro e omicida pessimo; e ogni gente grida e mormora di te, e tutta questa terra t’è nemica”.
A Francesco sembra di leggere negli occhi del lupo una grande stanchezza e ne ha compassione. Quelle luci fiammeggianti colore del sole gli dicono della sua malinconia del non poter vivere in pace, la stessa di tutte le creature condannate a uccidere e a essere uccise dal giorno in cui Adamo volle farsi come Dio. Allora pensa che, forse, per Grazia del Cielo, può trovare il modo di rimettere le cose a posto, almeno per quella volta, per quella sola unica volta, per vivere come se ancora si fosse tutti nel Giardino. “Frate lupo, poiché ti piace di fare e di tenere questa pace, io ti prometto ch’io ti farò dare le spese continuamente, mentre tu viverai, dagli uomini di questa terra, sicché tu non patirai più la fame; imperò che io so bene che per la fame tu hai fatto ogni male. Ma poich’io t’accatto questa grazia, io voglio, frate lupo, che tu mi prometta che tu non nocerai mai a nessuna persona umana né ad animale: prometti tu questo?” E, mirabile a dirsi, il lupo promette, appoggiando una zampa nel palmo della mano del frate.
A quel punto, perché il patto possa dirsi valido, manca solo l’assenso della gente di Gubbio. Senza por tempo in mezzo, Francesco vi si avvia lieto e fiducioso, seguito dal lupo.
Gli uomini di guardia alle porte della città, alla vista del frate accompagnato dal temuto predatore, scattano e puntano le armi contro il lupo che, spaventato, ringhia sommessamente, ma senza venir meno al patto, e si va a mettere in protezione dietro a Francesco. Ma poi, e non credono ai loro occhi, non possono fare altro che constatare che la bestia, fino a quel mattino tanto feroce, era diventata mansueta e remissiva come un cagnolino con il proprio padrone.
Le porte vengono aperte e, piano piano, si radunano in piazza molte persone. Giunto anche il consiglio degli anziani, il frate racconta loro del patto che ha stretto con il lupo nella foresta, si pone come garante del medesimo e li invita a sottoscriverlo a loro volta, impegnandosi a fornire il cibo necessario per il sostentamento del lupo, il quale, a sua volta, non avrebbe mai più arrecato danno alla popolazione e ai suoi animali domestici.
I priori, per quanto abbiano fiducia in Francesco e nella sua fama di santità, tentennano: temono che non sia molto saggio lasciare che il lupo circoli liberamente nella città. E quello, come ispirato dall’alto, d’un tratto, si alza e si va ad accucciare tra le galline con i loro pulcini che razzolano poco distante, senza che queste ne abbiano il minimo timore. A quel punto, tutti comprendono che quel giorno l’Onnipotente ha loro regalato il prodigio di una fiera resa mansueta, non hanno più paura e, alla presenza di un notaio, si impegnano a rispettare il patto per tutta la durata della vita del lupo.
Seguì una gran festa, assieme a una Messa di ringraziamento, e tutto il popolo intonò e salì al Cielo la gioia di un Te Deum corale e sincero, mentre il lupo già si godeva la sua nuova vita, gustando quanto gli veniva offerto, e i bambini, affondando le loro manine tra il suo folto pelo, gli salivano sul dorso per trasformarsi in impavidi cavalieri.
Il lupo visse per altri due anni, dopo questo giorno, in pace e concordia con tutti i viventi del contado, e quando morì per l’età avanzata, non furono pochi quelli che ne piansero l’enigmatico e profondo sguardo color raggio di sole.
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