di Paolo Gulisano
Non ci sono dubbi che il pontificato di Jorge Mario Bergoglio sia stato segnato da atti che hanno fatto scalpore, ma ciò che è accaduto negli scorsi giorni è qualcosa di unico, che non ha precedenti nella storia della Chiesa, e non può essere considerato concluso con un imbarazzato comunicato della sala stampa vaticana, e nemmeno con le battute che imperversano sui social.
Quello che è accaduto è che un papa, che per la dottrina cattolica è il vicario di Cristo, per affrontare un problema insieme ai vescovi italiani, di cui egli è il primate, ha fatto uso di termini che appartengono al turpiloquio: frociaggine, checche. Termini da cinepanettone, o da caserma, e in effetti un candidato alle elezioni europee, il generale Vannacci, ha preso le difese del papa asserendo che ha utilizzato “parole di uso comune”. A casa sua, forse, o tra i suoi soldati. Probabilmente il paracadutista prestato alla politica non ha la minima idea di cosa significhi essere un sacerdote, un vescovo, e in particolare il vescovo di Roma, che è, come detto, vicario di Cristo sulla terra e non può parlare come un sergente istruttore o come un protagonista di filmacci anni Settanta. Ma il problema è che se non viene più riconosciuta la santità e la sacralità degli ordini sacri la colpa è anche e soprattutto di chi nella Chiesa ha fatto di tutto per demolire questa dimensione spirituale.
Tutto questo non è stato compreso nemmeno da quei cattolici cosiddetti conservatori che negli scorsi giorni hanno manifestato il loro entusiasmo per l’intemerata di Bergoglio: chi ha esultato chiedendo una standing ovation per il papa, chi ha affermato che “ci voleva il papa per abbattere il muro del politicamente corretto” e via esultando. Per costoro, nulla da eccepire sulla terminologia usata dal Santo Padre, anzi. E le precedenti criticità del suo magistero? Pachamama, chi-sono-io-per-giudicare e così via? Tutto dimenticato. È bastato quel greve romanismo per farlo sentire “uno de noantri”.
Tutto ciò è molto indicativo della confusione che regna anche in campo conservatore. Proviamo a immaginare: se Pio XII o Benedetto XVI avessero usato questa terminologia? Impensabile.
Provino a riflettere, gli entusiasti: Francesco, ponendo la questione in questi termini di trivialitas (si spera non infinita), ha forse dato un contributo alla soluzione dell’annoso problema dell’omosessualità nel clero? Tutt’altro. Sempre come si dice a Roma, l’ha buttata in caciara. In modo probabilmente consapevole, perché non si è trattato di una gaffe, e da questo punto di vista le giustificazioni date dalla sala stampa sembrano una pezza peggiorativa del danno precedente.
Questo caos, anzi, questo Vaticaos, alimentato da più parti, dal gossip e dagli interventi degli “addetti ai lavori” teologici, lascia la Chiesa in una situazione di sofferenza e disagio.
Un papa che fa uso del turpiloquio, e che manca palesemente di rispetto alle persone, è uno spettacolo davvero triste e preoccupante.
L’unico concetto corretto espresso dal comunicato vaticano è che il Santo Padre non è omofobo. Certamente non lo è: in realtà è clerofobo, e lo è da moltissimo tempo. Tant’è che non ha espresso un giudizio di valore sull’omosessualità in generale, ma su quella del clero. E magari su un certo tipo di clero. Nella visione di Bergoglio il tradizionalismo è due cose: rigidismo dottrinale ed estetismo formale. Probabilmente egli ritiene che i giovani seminaristi affascinati dalla liturgia antica (“trine e merletti”) e che indossano la tonaca tradizionale siano più vicini allo stereotipo del prete gay. Lui preferisce il prete macho del barrìo, descamisado, che non si mette in ginocchio o a mani giunte. Per questo preferisce i seminari vuoti, o con sole vocazioni “sociali”, rispetto a seminaristi “checche” che magari potrebbero orientarsi non tanto verso lo stesso sesso, ma verso il vetus ordo.
Intanto, però, i preti gay di lungo corso non vengono toccati, non vengono messi in discussione, e proseguono indisturbati le loro vite e le loro carriere, in attesa di tempi ancora migliori degli attuali, che potrebbero venire rapidamente. Bergoglio, infatti, anche in questa vicenda, ha proceduto secondo la metodologia hegeliana di tesi, antitesi e sintesi. La tesi è quella becera e volgare della frociaggine. L’antitesi è il solito “c’è posto per todos, todos”. La sintesi è quella già anticipata dal suo braccio destro Fernández nella Fiducia supplicans.
Qui su Duc in altum avevamo già avanzato l’ipotesi che questo documento avesse come principali beneficiari i religiosi e le religiose omosessuali. L’attuale querelle sembra confermare questa ipotesi, perché non è stata né una gaffe, né una scivolata di stile, ma una tappa fondamentale di un lungo percorso, che inizia da lontano.
La storia dei rapporti tra la Chiesa e la cultura omosessualista andrebbe approfondita, almeno a partire dalla figura di padre John Mc Neill, un gesuita americano dichiaratamente gay che fu il vero pioniere dell’omosessualismo cattolico.
Il pensiero di McNeill andrebbe attentamente analizzato, per capire come si è arrivati a Fiducia supplicans, ma anche alla pantomima della “frociaggine”. Lo descriviamo brevemente.
Nato nello Stato di New York e già militare durante la Seconda guerra mondiale, McNeill si congedò ed entrò nella Compagnia di Gesù, pur essendo consapevole della propria omosessualità. Evidentemente, da buon militare di origini irlandesi, non dava l’idea della pia “checca” invisa a Bergoglio. Venne ordinato sacerdote dal cardinale Spellman, arcivescovo di New York e già ordinario militare degli Stati Uniti, il grande avversario del santo vescovo santo Fulton Sheen all’interno dell’episcopato americano.
McNeill andò a specializzarsi in teologia a Lovanio, poi divenne anche psicoterapeuta. Dopo il Concilio Vaticano II disse e scrisse che voleva diffondere “la buona notizia” tra i cattolici gay e lesbiche. Nel 1976 pubblicò con approvazione vaticana la sua opera fondamentale, La Chiesa e l’omosessuale, primo tentativo da parte di uno studioso e teologo di fama di esaminare e sfidare gli insegnamenti tradizionali della Chiesa sulla sessualità e gli atteggiamenti nei confronti dei cattolici gay e lesbiche.
Quando divenne papa Giovanni Paolo II, McNeill cominciò a vedersi ostacolato seriamente nella sua “missione”. La Santa Sede revocò la sua approvazione al libro e il nuovo responsabile della Congregazione per la dottrina della fede, il cardinale Joseph Ratzinger, ordinò al gesuita di New York di ritirarsi nel silenzio. Formalmente il gesuita lo osservò, ma continuò il ministero privato a favore dei gay e delle lesbiche di fede cattolica. Il suo lavoro comprendeva psicoterapia, workshop, conferenze e ritiri. “Avevo accettato di osservare questo silenzio nella speranza che col tempo la Chiesa prendesse in considerazione le prove e iniziasse una rivalutazione”, scrisse nell’introduzione alla quarta edizione del suo libro.
Nel 1988 ricevette da Roma un altro ordine: rinunciare a ogni ministero a favore delle persone gay, ma lui disse di non poterlo rispettare in buona coscienza.
Avendo disobbedito, fu espulso dalla Compagnia di Gesù, ma continuò a denunciare gli insegnamenti cattolici ufficiali in materia di sessualità, e da ex militare proseguì la sua guerra contro Benedetto XVI, nei confronti del quale nutriva un particolare livore.
McNeill visse per anni more uxorio col suo compagno e morì nel 2015, acclamato come un “profeta” dalla comunità LGBT cattolica.
La storia di questo gesuita serve per capire che la questione dell’omosessualità nella Chiesa cattolica non si può ridurre a chiacchiere da bar, a battute da caserma, e nemmeno a patetici comunicati stampa di contrordine. Ribaltando il noto aforisma di Flaiano, anche se la situazione appare non seria in realtà è molto grave.