La Chiesa in agonia e la pericolosa sindrome di chi nega l’evidenza
di The Wanderer
Nelle ultime settimane ci siamo occupati diverse volte di un tema ricorrente e, se non avessimo la speranza cristiana, drammatico. Mi riferisco allo stato di prostrazione e di rapida riduzione al nulla in cui versa la Chiesa in Argentina e nel mondo intero. La situazione che abbiamo descritto riguardo alla vita religiosa nel nostro Paese è riscontrabile in egual misura in tutto il mondo cattolico. Per non essere autoreferenziali, guardiamo a ciò che è successo a Montréal e in tutto il Québec. Da città e regione profondamente cattoliche, con un’impressionante fioritura della Chiesa, in pochi anni sono diventate una landa desolata. Non ci sono quasi più preti e suore, mentre un tempo ce n’erano in abbondanza, e ancora peggio è che non ci sono quasi più fedeli. Le chiese e i conventi che un tempo popolavano la città vengono demoliti o venduti; gli arredi sono smantellati; gli ornamenti bruciati e i libri delle favolose biblioteche sono depositati in container per essere ridotti in residui da riciclare per produrre carta.
La catastrofe è di un’evidenza spaventosa e non può essere smentita da nessuno che non sia affetto da disturbi delle facoltà sensitive o spirituali. L’unico modo per negarla è un atto della volontà che, opponendosi alle prove che vengono presentate dai sensi e dalla ragione, afferma la propria cieca opinione. Nessuna persona onesta, qualunque sia la sua condizione, può affermare che la Chiesa stia vivendo una primavera o un buon momento, o addirittura che sia in salute. La Chiesa è in agonia: questa è la cruda realtà. Perché, allora, si nega l’evidenza? In mancanza della diagnosi, non vengono somministrate le medicine che potrebbero portare alla guarigione.
Qualche giorno fa ho letto uno scritto illuminante. L’autore sottolinea l’esistenza di quelle che giustamente chiama la sindrome di Iolanda e la sindrome di Renato. Il riferimento è, ovviamente, all’opera Iolanta di Pëtr Il’ič Čajkovskij. Vi si racconta la storia di una principessa, Iolanda d’Angiò, cieca dalla nascita. Suo padre, il re Renato, per evitare che la figlia soffrisse, decise che sarebbe stata cresciuta in isolamento dalla corte e che nessuno avrebbe dovuto dirle che era cieca, né fare riferimento alla luce, ai colori o a qualsiasi altra cosa che potesse essere conosciuta attraverso la vista. Quando Iolanda divenne una bella fanciulla, un medico arabo arrivò a corte e rivelò al re Renato di possedere la cura per la cecità della figlia, ma la condizione per la cura era che la ragazza conoscesse la sua condizione e volesse essere guarita. Il re temeva che il rimedio proposto dal medico fallisse e che la figlia, conoscendo la sua triste situazione, divenisse infelice; perciò non accettò la proposta. Poi arrivò il conte Vaudémont che, ignaro del divieto del re, si innamorò della principessa Iolanda e le parlò della luce e dei colori. Così la giovane finalmente conobbe la verità e, desiderando essere guarita, ottenne la vista e l’amore.
La Chiesa, o meglio la maggior parte della Chiesa, soprattutto i laici, soffre della sindrome di Iolanda. Fanno parte di un’istituzione che sta morendo, con la morte che è dietro l’angolo, o comunque a distanza di pochi anni. Eppure non lo sanno e nessuno glielo dice. Al contrario, gli viene detto che va tutto bene, che le prospettive sono promettenti, che abbiamo il vento in poppa e le vele sono spiegate. E la cosa sconcertante è che questo accade anche in ambienti considerati conservatori, eredi tardivi del trionfalismo alla Giovanni Paolo II.
A dimostrazione di quanto sto dicendo, vi suggerisco di guardare questo breve video della celebrazione della Pentecoste nella chiesa di Santa Inés a Barcellona, una delle più conservatrici e vitali della città. La prima impressione è, sotto molti aspetti, positiva: c’è l’adorazione del Santissimo Sacramento, ci sono molti giovani, ci sono sette candele accese, c’è l’incenso… L’atmosfera è simile a quella che si respira nelle messe e nelle riunioni di gruppi come Cursillos de Cristiandad, Emmaus, Effatà, Hakuna e tutta la serie di movimenti e iniziative di questo tipo. Ogni Paese ha il suo, e tutti sono fatti della stessa pasta. Non giudico il bene che movimenti di questo tipo possono portare; Dio è libero di toccare l’anima di ogni uomo come vuole. Ciò di cui dubito è la cattolicità di questi gruppi che passano per conservatori e che entusiasmano centinaia di sacerdoti e vescovi. Quanto è cattolico, per esempio, organizzare una veglia di Pentecoste con adorazione del Santissimo Sacramento che assomiglia a un concerto rock? È molto curioso. Per millecinquecento anni la Chiesa ha celebrato la veglia di Pentecoste, che era molto simile a quella di Pasqua (benedizione del fonte battesimale, canto delle profezie, litanie, Gloria con le campane) e che la riforma di Pio XII ha eliminato, mentre Paolo VI ha eliminato l’ottava. Ed ecco che negli ultimi anni ogni sacerdote “inventa” la propria veglia, togliendo e aggiungendo cerimonie e giochi di prestigio secondo le proprie idee (come si vede nel video, anche una striscia di luci led nell’ostensorio) e ignorando, o disprezzando, la tradizione della Chiesa. Tutto questo non è proprio dei cattolici, ma lo è dei protestanti. Come a dire: a ciascuno il suo.
Ma al di là dell’aspetto liturgico, questo tipo di parrocchie che molti considerano “vive” – le altre parrocchie, dove non ci sono giovani, ma solo messe quotidiane, sarebbero “morte” – vivono nell’illusione che il clamore giovanile sia vita cristiana. Non si rendono conto di ricorrere a espedienti sentimentali e ad agguati emotivi per attirare i giovani a queste cerimonie di dubbia ortodossia. Ma la questione è se si tratti di vera conversione e se questa conversione alla fede sia stata costruita sulla roccia o sulla sabbia delle emozioni. Purtroppo, sappiamo tutti che l’efficacia emotiva di questi espedienti dura solo pochi mesi o pochi anni.
Come Iolanda che, essendo cieca, era convinta e felice in quel mondo oscuro che considerava l’unico esistente, così questi cattolici, di cui non giudico affatto l’intenzione, credono di vivere il momento migliore della Chiesa quando, in realtà, la Chiesa sta morendo e ciò che vivono è tutto fuorché cattolico.
Tuttavia, più grave e più triste della sindrome di Iolanda è la sindrome di Renato. È la sindrome di cui soffre gran parte della Curia romana, dei cardinali e dei vescovi, e anche molti sacerdoti. Tacciono e ordinano ai loro subordinati di tacere, di non dire a Iolanda che è cieca e che il mondo in cui vive è un mondo limitato. Si rifiutano di dirle che il mondo reale è diverso, che lo splendore della Chiesa non si ottiene con luci colorate, chitarre e tamburi; si rifiutano di rivelarle la gravità della sua malattia e la prossimità della morte. E contemporaneamente, con grande coerenza, perseguitano ferocemente quelli di noi che, come possiamo, avvertono il malato della gravità della sua condizione.
Nell’ultima riunione della Conferenza episcopale argentina un intero pomeriggio è stato dedicato alla discussione del “problema” dei blog, dei canali YouTube e di altre reti sociali di orientamento conservatore e tradizionalista. I vescovi, affetti dalla sindrome di Renato, sono molto allarmati dal numero impressionante di iscritti e lettori di questi mezzi; numeri inimmaginabili per loro, che sono seguiti al massimo da tre suore e cinque vecchiette. La parola d’ordine è dunque farli tacere e impedire a tutti i costi le celebrazioni tradizionali. Ecco perché sarà così difficile per qualsiasi istituto con questo “carisma” fondare una casa in Argentina: attirerebbe migliaia di persone e raccoglierebbe decine di vocazioni.
Saranno i conti Vaudémont che, volens nolens, non solo riveleranno a Iolanda la sua cecità ma l’aiuteranno a guarire. E non sfugge ai vescovi che questa guarigione rivelerà la loro stessa malattia: la sindrome di Renato o il peccato contro lo Spirito.
Fonte: caminante-wanderer.blogspot.com
Titolo originale: Los síndromes de la Iglesia
Traduzione di Valentina Lazzari