A proposito di “Dignitas infinita” / La dottrina cattolica? Un ferrovecchio da buttare. Lo certifica il vescovo di Trieste

di Silvio Brachetta

Il giallo sembrava destinato a restare irrisolto: perché mai Víctor Manuel Fernández, prefetto del Dicastero per la dottrina della fede, ha introdotto il termine «dignità infinita» nell’omonima dichiarazione [qui] di aprile?

La teologia parla sì di dignitas infinita, ma in pochissime occasioni e per applicarla solo alla Beata Vergine Maria, alla natura umana di Cristo e ai beati in paradiso [qui]. Perché allora introdurre un concetto poco fondato – e ancor meno trattato – nella Scrittura e nel pensiero occidentale?

Svela l’arcano monsignor Enrico Trevisi, vescovo di Trieste, chiamato a trattare proprio della Dignitas infinita di Fernández, su invito dell’Azione Cattolica di Trieste [qui]. Monsignor Trevisi non è troppo entusiasta di questa nuova recente dichiarazione. Gli suona male, tra l’altro, quell’accenno, nelle prime righe del documento, alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo (1948), non solo «guardata con un certo distacco da Pio XII perché non c’era un riferimento a Dio», ma anche perché si fa riferimento solo ai diritti e mai ai doveri. Parole sante.

E non è entusiasta per un secondo motivo: pur trattando delle grandi tragedie del nostro secolo – omicidio, genocidio, aborto, eutanasia, povertà, guerra, immigrazione eccetera –, Fernández mette troppa carne al fuoco. «Sono temi difficili – commenta Trevisi – e questo documento non li risolve».

Cancellare la dottrina, vista come ostacolo

Dove invece l’entusiasmo del vescovo si riaccende è su tutt’altra questione, accuratamente nascosta tra le pieghe del testo e che poco c’entra con la risoluzione delle tragedie umane. C’entra invece molto con i massimi sistemi della nuova teologia contemporanea. A Fernández e a Trevisi sta a cuore abbandonare tutto ciò che essi ritengono un vecchiume metafisico, linguistico e concettuale: secondo Trevisi, parlare dei temi della vita e della dignità «con il linguaggio della legge naturale, ci ha portato in un vicolo cieco».

Da qui la rivelazione: quando Fernández usa il concetto di dignità infinita, sa benissimo – afferma Trevisi – che non si tratta di «una categoria centrale del pensiero né antico, né biblico», però è necessario introdurre un nuovo «fondamento», che oggi ci consenta di «capirci, di parlare, di andare avanti a riflettere, piuttosto che spegnere la riflessione».

Sentire queste parole è qualcosa di sbalorditivo. Si vuole togliere di mezzo il fondamento certo della fede e ci si reinventa una nuova categoria (la dignità infinita), senza capo né coda, senza collegamento alla dottrina; e la si utilizza come surrogato, che dovrebbe far capire meglio all’uomo moderno cosa fare.

Ecco allora il punto, il nodo dei nodi del pensiero del vescovo, comune a tutta la teologia degli ultimi decenni: per parlare con l’uomo di oggi, oltre ogni cultura e religione, è necessario distruggere ogni fondamento scandaloso e, a maggior ragione, lo scandalo cristiano. Per dialogare, però, un fondamento serve comunque, infinito almeno quanto Dio. Ma se tolgo Dio, cosa rimane? Ovviamente l’uomo.

Cosa di meglio, allora, che portare al culmine la svolta antropologica del secolo scorso e definire la dignità umana come «infinita»? C’è un’unica emergenza, dice il vescovo: da decenni la Chiesa fa «una grande fatica di dialogo con la filosofia, con la cultura, con il mondo di oggi». Per cui l’unica soluzione è di «elaborare un lessico per poter fare un dibattito», poiché, «se non abbiamo le parole, come facciamo a discutere per riuscire a trovare una via umana, una via condivisa per tutelare e difendere la persona?»

Questo è il vero «vicolo cieco», secondo monsignor Trevisi. Non il crollo della fede, in qualità e quantità. Non l’assenza di un apostolato. Non la carenza della predicazione cristiana. Non la scomparsa del cattolico nella politica. Non lo scadimento di un sacerdozio sempre più secolarizzato. Non la tiepidezza dei chierici e dei laici.

No, nessuna via divina. Bisogna invece trovare una «via umana», per cui a tutte le brutture del mondo ci sarebbero soluzioni condivise, senza necessità di scomodare il Dio cristiano.

«Uscire da una visione di una natura metafisica e immutabile dell’uomo»

Le parole di monsignor Trevisi suonano assai paradossali e non perché la Dignitas infinita di Fernández non abbia accuratamente sostituito stile e linguaggio, ma perché contiene continui riferimenti alla religione cristiana. Tutto, nella dichiarazione del prefetto, sembra avere un fondamento biblico: la stessa dignità, che poggia sull’uomo «immagine e somiglianza di Dio»; la necessità dei doveri assieme ai diritti; la sacralità della vita; Cristo come salvatore, come creatore, come Dio e come uomo; la libertà scaturita dalla Rivelazione.

Se il dialogo – secondo Trevisi o Fernández – si era interrotto per via di un linguaggio vecchio e dogmatico, come mai, ora che il linguaggio è moderno e discorsivo, tutti questi documenti ecclesiali sono pressoché ignorati da quel mondo con cui si vorrebbe parlare e cercare soluzioni?

La risposta è semplice: perché quel mondo non ha nessuna intenzione di rinunciare ad alcunché della propria religione (ebraismo, islam, buddismo, induismo, sciamanesimo) e della propria cultura (laicismo politico, teocrazia, usi e costumi, sharia, tribalismo). Solo il cattolico rinuncia volentieri al proprio tesoro e sostituisce, nel più completo disinteresse, ogni concetto della sua teologia con un altro, nuovo e senza radici. E pretende pure di porre questo nuovo concetto come «fondamento» meta-culturale e meta-religioso (poiché il dialogo lo si fa con tutte le religioni e culture).

Davvero ci si può illudere che la Dignitas infinita di Fernández sia accolta trionfalmente dai non cristiani? Davvero ci si può illudere che un africano sostituisca il suo tribalismo con la fraternità, senza conversione e per il puro assenso alla dignità infinita dell’uomo?

Eppure il vescovo di Trieste è convinto: «Se voglio entrare in dialogo con la cultura di oggi, devo anche provare a usare delle categorie comprensibili a loro. E l’operazione è che per la dignità infinita è stata fatta una fondazione nella creazione, nel principio della incarnazione e della redenzione». La dignitas infinita sarebbe una categoria comprensibile ad un indiano, la cui cultura conosce solo le caste e l’idolatria? E un ateo – come lo sono la maggior parte dei politici – dovrebbe riallacciare la dignitas infinita alla creazione, all’incarnazione e alla redenzione?

Non solo Trevisi non vede l’assurdità di questi argomenti, ma sposa una certa mentalità storicista: «Noi parliamo di dignità, di diritti dell’uomo, di libertà, sempre dentro una cultura, dentro una storia. Anche la riflessione più matura della legge morale naturale ha dovuto fare i conti con la storicità e con la cultura»; bisogna allora «uscire da una visione di una natura metafisica e immutabile dell’uomo, che non rendeva conto anche del suo essere culturale e storico». Tutto quindi deve ruotare attorno a questo che, un tempo, era indicato come relativismo.

Ha ragione il vescovo. Siamo in un «vicolo cieco». E non per via della dottrina – oramai quasi estinta nella Chiesa – ma perché non è più possibile alcun tipo di dialogo, divenuto la sede di scelte opportuniste, di parole incomprensibili e di confusione globale.

 

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