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Bergoglio e la grande inversione. Al cuore del “sistema Francesco”

Cari amici di Duc in altum, lo studio che oggi vi propongo in una mia traduzione richiede un certo impegno sia per la lunghezza sia per la densità dei contenuti teologici. Ho tuttavia pensato che fosse necessario cimentarsi in questa impresa perché a mio avviso il saggio mette a fuoco i veri problemi, e il vero dramma, dell’attuale pontificato. 

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Sotto lo pseudonimo di Vigilius, l’autore propone qui una nuova prospettiva nella critica dell’attuale pontificato e la presenta in un’analisi tagliente come un rasoio. Questa nuova prospettiva, che merita tutta la nostra attenzione, risulterà scioccante nelle sue conclusioni. In passato una linea di pensiero simile era già stata adottata in qualche misura e a grandi linee, ma senza andare fino in fondo. Vigilius, invece, non solo supera questo ostacolo psicologico, ma porta avanti la questione in modo sistematico e coerente, fino a formulare quello che definisce un nuovo approccio nella valutazione dell’attuale pontificato. In gioco c’è niente di meno che l’esistenza stessa della Chiesa.

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di Vigilius

Il pontificato di Jorge Mario Bergoglio è caratterizzato da numerose ambivalenze. Il papa, per esempio, parla contro l’ideologia woke, ma riceve continuamente rappresentanti di questo stesso mondo; definisce l’aborto un omicidio e allo stesso tempo fa diffondere dall’arcivescovo Paglia dichiarazioni che difendono la sua legalizzazione; invia lettere critiche al Cammino sinodale e fa dimettere il vescovo Strickland, e nel momento stesso in cui destituisce monsignor Strickland lascia che i tedeschi vadano avanti nel loro percorso. Fa dichiarazioni relativistiche sulla religione e poi le ritratta. Concede a Eugenio Scalfari diverse interviste di contenuto teologico estremamente dubbio e svolge catechesi che formulano tesi opposte, e così via.

Queste ambiguità, unitamente al il fatto che il papa non abbia mai formalmente rivendicato il suo primato magisteriale, hanno spesso generato sconcerto nel campo conservatore. Per cui, oltre alla necessità di non danneggiare l’istituto papale, c’è la tendenza, pur criticando singoli punti, a restare cauti nel complesso.

Una delle narrazioni più diffuse sostiene che Francesco è uomo di natura erratica, orientato principalmente alla politica e alla pratica. Non è una mente di tipo sistematico-teorico e, in più, sarebbe circondato da cattivi consiglieri.

Ora, non voglio negare che questi aspetti siano reali. Tuttavia, sono del parere che in questo pontificato si possa scoprire un sistema. Ci possono essere ambiguità nella personalità del papa e tracce di tradizione emergono di continuo accanto a dichiarazioni fastidiosamente divergenti. Lascio aperta la possibilità che le incoerenze nascano da una pianificazione, o se vogliamo da una tattica, che ha l’obiettivo di rassicurare di volta in volta i conservatori e contenere così la resistenza alla linea di questo pontificato. Nel complesso, però, mi sembra che non siamo di fronte a pura e semplice confusione. L’ambiguità non nasce semplicemente dalla mancanza di un centro organizzatore, ma è  la conseguenza intrinseca del sistema che ho ipotizzato, un sistema che vuole ridefinire completamente l’esistenza della Chiesa.

È significativo che Francesco stesso abbia detto più volte di voler confondere tutto. Tuttavia, il caos non è fine a sé stesso, ma è al tempo stesso una conseguenza inevitabile della rivoluzione e il suo mezzo di auto-realizzazione. Quindi, in una certa misura, sotto le tracce di tradizione momentaneamente emergenti c’è una corrente rivoluzionaria, una frattura spirituale di base che forma – in modo più o meno evidente – il centro effettivo dell’era bergogliana. Non bisogna lasciarsi abbagliare da documenti come Dignitas infinita.

“Ogni grande pensiero è ingiusto”, dice Nicolás Gómez Dávila. Questo perché, ovviamente, esso si potrebbe sempre differenziare di più, rivendicando ulteriori accentuazioni, sfumature e ambiguità. Tuttavia, la parzialità insita nel pensiero non cancella la verità fondamentale dell’idea. Inoltre, abbiamo bisogno di queste riflessioni, perché senza di esse perderemmo la visione d’insieme e ci smarriremmo nella selva della smania di differenziare diffusa in ambito accademico, capace di distinguere fino a far scomparire del tutto il fenomeno e a non vedere più nulla. È compito del pensiero rendere il fenomeno il più chiaro possibile.

Vorrei dunque occuparmi del sistema bergogliano, della cui esistenza sono convinto. Con questo non voglio assolutamente dire che Francesco sia un teologo importante. Non lo è di certo. In realtà, Jorge Mario Bergoglio non ha mai formulato proposizioni di un certo rilievo teologico. La caratteristica più impressionante del suo pontificato consiste unicamente nell’insistenza con cui egli, spregiudicato e sicuro di sé, come solo le menti mediocri sanno essere, spinge a compimento un vecchio progetto che non ha inventato. Ironia della sorte, il suo sfortunato significato storico sta proprio in questo effetto catalizzatore, che peserà sulla sua memoria come un’oscura maledizione.

Fratelli tutti

Partirò da un notevole discorsetto, risalente alla prima fase del suo pontificato, che Francesco rivolse a un suo amico, l’ecclesiastico anglicano-episcopale Tony Palmer, morto in un incidente nel 2014. Bergoglio lo inviò con il suo cellulare affinché Palmer potesse condividerlo con i partecipanti a un congresso pentecostale [1]. All’inizio del video, che si presenta come spontaneo ma è sistematicamente concepito, il papa si scusa perché parla non in inglese ma italiano, poi cambia deliberatamente registro, la mette sul sentimentale e dice che non vuole parlare né in inglese né in italiano, ma “di cuore”, in base alla “grammatica dell’amore”.

È una messa in scena brillante. Al posto dei termini teologici razionali-distintivi, che potrebbero consentire una disputa argomentativa e quindi legittimare un’opposizione circa la questione della verità, usa il livello emotivo: un’abile manovra tattica con cui si delegittimano a priori e si eliminano dal campo i possibili avversari della posizione sostanziale sostenuta da Francesco. Il sistema di coordinate emozionali stabilito dall’oratore apre senza ulteriori indugi un discorso in cui tutte le obiezioni devono apparire immediatamente dure e offensive. Francesco stabilisce così le regole del gioco anche per i suoi avversari. Allo stesso tempo, questo “discorso del cuore” corrisponde esattamente alla preoccupazione centrale, presentata attraverso il metodo retorico scelto: l’unità che trascende le frontiere e la fraternità incondizionata. Entrambe, afferma il vescovo di Roma, si stanno già realizzando con il “vescovo-fratello Tony Palmer”, come egli lo chiama esplicitamente. Ecco così che, in questo scenario, chiunque critichi la ricerca dell’unità non può essere altro che un cattivo, perché nel suo irrigidimento egli disconosce l’esplicito “desiderio di abbraccio” di papa Francesco con i fratelli delle altre confessioni, un cattivo desideroso di favorire quelle distinzioni teologiche che il papa identifica esplicitamente e senza differenziazioni come divisioni peccaminose.

Nel prosieguo del suo discorso, sempre guidato da questa grammatica dell’amore, il papa si rivolge alla storia veterotestamentaria di Giuseppe, che costituisce il centro organizzativo dell’intera argomentazione. I fratelli di Giuseppe, spinti dalla fame, vanno in Egitto per comprare il pane. I loro soldi, osserva Francesco, non bastano per mangiare. Ma poi trovano qualcosa di ancora più importante del pane, ovvero il ricongiungimento con il fratello. “Tutti noi – dice Francesco – abbiamo denaro. Il denaro della nostra cultura, della nostra storia. Abbiamo molte ricchezze culturali, religiose, e abbiamo tradizioni diverse”. E ora arriva la grande proposta: “Ma dobbiamo incontrarci come fratelli”. Secondo il papa, quindi, le comuni “lacrime d’amore” ci uniscono e sono molto più importanti delle ricchezze delle particolari tradizioni religiose, tradizioni che vanno a formare la sfera inautentica delle questioni teologiche circa la verità e delle corrispondenti linee di conflitto. Per dirla in modo più preciso: le “lacrime d’amore” non ci rendono immediatamente fratelli, ma ci permettono di scoprire il vero tesoro nascosto sotto le proposizioni dottrinali delle tradizioni particolari, ovvero che siamo già fratelli.

In questo modo si formula l’assioma di base, semplice eppure estremamente consequenziale, della visione del mondo bergogliana. La visione è dominata dall’idea che la fraternità universale, al di là delle tradizioni religiose secondarie, sia il principio più importante di tutti, non solo per la morale e l’azione politica concreta, ma anche per la teologia e la pratica spirituale dei singoli e della Chiesa nel suo insieme.

Durante il suo mandato, fino a oggi, papa Francesco ha ampliato la categoria guida della fraternità universale includendovi l’aspetto della responsabilità ecologica per la “Madre Terra”. Tuttavia, entrambi i motivi sono solo due facce della stessa medaglia. Nei suoi due scritti Laudato sì’ e Laudate Deum, la preoccupazione per il pianeta diventa il centro dell’attenzione della Chiesa. Tralasciando il grave problema che il papa si sta facendo custode di alcune posizioni economiche e climatico-ecologiche scientificamente controverse, e sta quindi decisamente travalicando l’area di competenza magisteriale, Francesco sta cercando di dare al paradigma ecologico una centralità teologica che va ben oltre la sua rilevanza meramente naturale ed etica.

Ecco perché sono così significative le celebri dichiarazioni del papa in occasione di un incontro dei Focolari per celebrare la giornata internazionale di sensibilizzazione sull’inquinamento ambientale, nota come Giornata della Terra. Quando Francesco proclama qui che la nostra comune umanità è il fattore decisivo rispetto al quale vale quanto segue: “‘Ma io appartengo a questa religione, o a quell’altra… Non è importante!” [2], questa frase non è degna di nota perché afferma che la specifica appartenenza religiosa è insignificante quando si tratta di combattere l’inquinamento ambientale. Sarebbe banale. Piuttosto, è rilevante perché Jorge Mario Bergoglio assume fondamentalmente e senza ambiguità la lotta contro l’inquinamento ambientale come parte integrante della lotta per un mondo migliore. La preoccupazione principale per la religione in generale diventa quella per un mondo socialista di fratellanza. Di conseguenza, le differenze tra le tradizioni religiose hanno una rilevanza marginale.

L’impegno per l’idea di fraternità universale al di là delle tradizioni religiose particolari, stabilita come nucleo teologico dell’autocomprensione della Chiesa e arricchita dall’idea socio-ecologica della trasformazione del mondo, costituisce il centro definitorio dell’universo bergogliano. Agli occhi di Jorge Mario Bergoglio, esso è in una certa misura l’articulus stantis et cadentis ecclesiae che giustifica  l’esistenza stessa della Chiesa. Per la Chiesa cattolica le implicazioni di questa posizione paradossale – ovvero che l’essenza di una tradizione particolare consiste nel relativizzare sé stessa, fino ad abolirla – sono così mostruose che dobbiamo esaminarle separatamente. Prima di tutto, però, dobbiamo rendere il fenomeno sufficientemente visibile.

Che l’affermazione di questo centro di definizione non sia esagerata è dimostrato dal fatto che esso è perdurato per tutto il pontificato in modo tale da emergere sempre più come un principio totalizzante, anche per ragioni politiche. L’esempio più recente è l’ultimo messaggio quaresimale, in cui il papa interpreta la liberazione di Israele dalla schiavitù d’Egitto, tornando allegoricamente in Oriente come dieci anni fa. Il testo, la cui lettura può essere definita una vera e propria opera di penitenza, si intitola Attraverso il deserto Dio ci conduce alla libertà.

Si intuisce già tutto, e si intuisce bene. Il faraone e la casa degli schiavi rappresentano quei “legami oppressivi” che negano “la fratellanza che ci lega originariamente”, mentre questa stessa fratellanza costituisce la “terra promessa”. Ecco di nuovo la “fraternità universale”, che sul sito stesso del Vaticano è tradotta in tedesco come Geschwisterlichkeit e costituisce l’articulus stantis et cadentis ecclesiae bergogliensis. Di conseguenza, Francesco decifra la nostalgia dei brontoloni israeliti per i carnai d’Egitto e gli effetti persistenti del dominio del faraone come un desiderio di tornare a “legami oppressivi”, desiderio che è identico alla “globalizzazione dell’indifferenza” di cui il papa – lo ricorda lui stesso – parlò nel suo viaggio verso i migranti a Lampedusa.

Secondo Jorge Mario Bergoglio, la Quaresima è il momento giusto per enfatizzare il “sogno della terra promessa” –  più volte richiamato come tale – contro un “modello di crescita che ci divide” e “inquina la terra, l’acqua e l’aria”. Ma il regno del Faraone, che si oppone alla terra promessa, è determinato non solo da legami economici e da concezioni eco-etiche errate. Lo è anche da quei legami che riguardano la “nostra posizione”, la “tradizione” o il gruppo socio-culturale. La “Quaresima” ha così lo scopo di farci riconoscere che queste particolari relazioni portano alle disuguaglianze, in modo da poter poi abbandonare la “sicurezza del già visto” economico, sociale e religioso-tradizionale, per uscire nel nuovo mondo della “fratellanza e sorellanza mondiale”.

Secondo Jorge Mario Bergoglio, questo sogno del “nuovo mondo” e della “nuova umanità”, che non è più “legata al denaro, a certi progetti, idee, obiettivi, alla nostra posizione, a una tradizione o persino a certe persone”, non è altro che il “sogno di Dio” stesso, il sogno della “terra promessa verso la quale siamo diretti quando lasciamo la schiavitù”. Dio, dunque, fa suo il sogno socialista della riscoperta e del risveglio della fratellanza universale primigenia, in cui le “tenebre delle disuguaglianze” sono dissipate e tutti diventano “compagni”. È un sogno in cui le pretese esclusiviste di verità, le dogmatiche religiose, le identità distintive delle comunità religiose e tutte le appartenenze culturali ed etniche circoscritte hanno perso la loro presunta forza oppressiva. La libertà, invece, è definita come superamento delle catene della particolarità, come identità con la generalità dell’universo di fratellanza e sorellanza senza confini.

La Terra Promessa si realizza attraverso un processo. Dobbiamo fare tutto il possibile per raggiungerla e superare la nostra fissazione sulle identità particolari, che vanno considerate egoistiche. Ciò significa, non da ultimo, che dobbiamo lottare contro la tentazione di rendere assoluto, a causa del nostro bisogno di sicurezza, un credo particolare al di là della fraternità universale che è sempre esistita. La teoria papale della fraternità rende inevitabile che tutti i titoli teologici debbano sottomettersi a essa ed essere reinterpretati di conseguenza. Anche il martirio in nome di un credo deve essere dissolto, così come la missione legata a un credo specifico. Entrambi si trasformeranno nelle categorie di “impegno sociale” e “dialogo nell’ascolto”, che diventeranno le nuove dimensioni guida spirituali. Per Bergoglio, il superamento delle “nostre idee” e della “nostra tradizione”, come delle attività classico-religiose ad esse correlate – in breve, il superamento di tutto ciò che è “indietristico” – è il comandamento religioso centrale. Anzi, è volontà e missione di Dio stesso.

È un fatto ovvio che papa Francesco sia un uomo di potere autoritario. Tuttavia, la mia tesi è che il suo dominio sia esercitato in modo molto meno irrazionale di quanto si sostiene in tante descrizioni di questo pontificato. Papa Francesco ha un programma di base, quello che ho appena descritto, e lo sta attuando nella Chiesa con notevole coerenza. Francesco non è né un pragmatico né un politico; secondo le sue stesse parole, è soprattutto un “sognatore”. Per dirla in modo meno romantico: Jorge Mario Bergoglio è soprattutto un ideologo.

La grande perdita

Di seguito mi propongo di far luce sullo spessore teologico della teoria, sostenuta dal papa, secondo cui le tradizioni religiose sono ormai di secondaria importanza. Probabilmente per molte convinzioni religiose è difficile accettare la teoria bergogliana della relatività. Probabilmente essa è più compatibile con le spiritualità asiatiche. Per la Chiesa cattolica, in ogni caso, è devastante.

La caratteristica essenziale della tradizione cattolica è di non intendere sé stessa come un semplice contesto di tradizione. La tradizione cattolica comprende la Chiesa, fondamentalmente, non come una struttura di formazione della tradizione, cioè di idee coscienti, formule di fede e pratiche simboliche, ma come un momento interno di un evento ontologico da cui queste formazioni della tradizione emergono logicamente. Già con i testi del Nuovo Testamento la coscienza ecclesiale afferma e testimonia questo evento decisivo dell’essere, in base al quale la Chiesa sorge e cade. Se questa fede tradizionale fosse stata sostituita dalla fede nella tradizione stessa, il nichilismo avrebbe già fatto strada e la tradizione sarebbe già scomparsa da lungo tempo.

L’evento a cui si riferisce fondamentalmente la fede tradizionale della Chiesa è che Dio, in un impossibile atto di grazia che in Cristo trascende infinitamente le mere possibilità della natura creata, ha costituito un contesto nuovo, soprannaturale, dell’essere. “Se uno è in Cristo, è una nuova creatura”. La novità di questo nuovo essere è stata descritta con grande audacia dai Padri della Chiesa: l’uomo rimane una creatura, ma per grazia viene sollevato infinitamente oltre la sfera della mera creazione e riceve una partecipazione alla vita divina che lo trasforma interiormente nella santità stessa di Dio, tanto che il mistico san Giovanni della Croce può paragonare l’uomo trasformato in Cristo a un ceppo di legno che, posto in un fuoco ardente, difficilmente può essere separato dalle braci che lo inghiottono. Nel linguaggio più prosaico della teologia scolastica, ciò significa che lo Spirito Santo diventa il principio dei nostri atti spirituali e, nella visio beata, anche del corpo umano.

Come già affermavano Agostino, Tommaso d’Aquino e Giovanni Duns Scoto [3], lo spirito umano è costitutivamente caratterizzato da un “appetitus innatus”, orientato alla vita soprannaturale, che trova il suo completamento interiore nella contemplazione svelata di Dio. Ora, sebbene il desiderium in visionem beatificam sia insito nell’uomo, la natura creata non è mai in grado di raggiungere da sola questo obiettivo soprannaturale del proprio desiderio naturale. Inoltre, la natura non ha diritto al suo compimento; il dono della meta rimane pura grazia, anche nel senso della completa libertà dalla colpa. In altre parole, fa parte della natura essenziale dell’uomo essere così spossessato di sé e così privo di autonomia da essere, materialmente e formalmente, del tutto dipendente da una libertà esterna, una libertà che può avere misericordia, ma può anche rifiutarla. Viene qui formulata una relazione di dipendenza che non potrà mai più essere concepita in modo più radicale.

È di grande importanza nel nostro contesto che la Chiesa cattolica non si rapporti esternamente all’essere soprannaturale in Cristo di cui è testimone. Nella sua proclamazione, essa non si occupa semplicemente di qualcosa di essenzialmente diverso da sé, ma si comprende come momento interiore dell’evento ontologico sopra descritto. Il nuovo essere in Cristo è la Chiesa stessa. Come suo corpo pieno di Spirito, essa non è altro che la comunione di vita soprannaturale con il Figlio incarnato, il suo capo soprannaturale. Essa è l’unica chiesa, santa e cattolica, in cui la comunione di vita trinitaria di Dio si rivela a noi. “Extra Christum nulla salus” equivale di fatto a “extra ecclesiam nulla salus”.

Di conseguenza, la fraternità umana e l’“unità del genere umano” sono sì topoi centrali della fede cristiana, ma solo nel contesto di questa connessione soprannaturale, che deve essere rigorosamente considerata. Tralasciando ancora una volta la questione se abbia senso dire che siamo sempre già fratelli in quanto esseri umani e formiamo una famiglia umana solo per ragioni di teologia del peccato originale, nella visione cattolica la categoria della fratellanza diventa una dimensione sostanzialmente rilevante solo sotto la considerazione soprannaturale dell’essere ecclesiologicamente formato in Cristo. È del tutto coerente con il Nuovo Testamento che per lo stesso Giovanni della Croce la fratellanza corporea sia ontologicamente una dimensione radicalmente secondaria.

Su questo sfondo, diventa comprensibile perché la posizione bergogliana sia distruttiva per la Chiesa. È distruttiva perché il papa determina erroneamente lo status ontologico della tradizione, e lo determina erroneamente perché determina erroneamente l’oggetto effettivo della fede. Francesco permette che la Chiesa della Tradizione cada senza problemi nella categoria della subordinazione logica, perché per lui non è altro, appunto, che tradizione. In questo senso, Bergoglio è un tradizionalista radicale. Nessuna realtà in sé corrisponde alle confessioni tradizionali. Per Jorge Mario Bergoglio sono tutte mere idee e, in linea di principio, pratiche arbitrarie; si potrebbe anche dire che la tradizione della Chiesa è un mero discorso che circola al suo interno, la cui pretesa di verità è stata inventata da persone che, per esigenze di demarcazione psicologicamente spiegabili, amano cullarsi in un senso di sicurezza e costruire mondi speciali clericali distaccati, in cui recitano opere liturgiche in rocchetti di pizzo.

Il progetto moderno di naturalizzazione del cristianesimo

Grazie a questo pontificato, la propaganda immanentista della teologia della fraternità naturale è diventata sfrenata e onnipresente nella Chiesa. Tuttavia, Jorge Mario Bergoglio non l’ha inventata. Il progetto di naturalizzare il cristianesimo risale al XVIII secolo e si estende a partire dall’Illuminismo, passando per l’Idealismo tedesco e il Protestantesimo liberale, nonché per i vari progetti modernisti del XIX secolo e le teologie politicizzanti del XX secolo, fino ai giorni nostri. Una delle sue manifestazioni attuali è l’idea, da tempo popolare negli ambienti teologici, di considerare il Nuovo Testamento come una mera riscrittura interna dell’Antico Testamento e – come ama significativamente fare il teologo fondamentale di Friburgo Magnus Striet – di parlare principalmente del “Gesù ebreo” [4].

Lo scopo di questo processo è spogliare le promesse di salvezza del Nuovo Testamento del loro carattere soprannaturale e quindi cristologico e rendere assoluto il rapporto religioso primariamente mondano di Israele. Nell’Antico Testamento, l’azione salvifica di Dio si riferisce essenzialmente a dimensioni interiori: chi è benedetto da Dio ha una lunga vita terrena e ha una discendenza maschile; al popolo d’Israele viene assegnato un certo territorio geografico come patria; la vita del popolo è ordinata dalla volontà divina di comandare; Dio infligge punizioni fisiche a Israele che non è disposto a obbedire, così come libera Israele dalla schiavitù terrena ed è al fianco del popolo nelle battaglie con altri popoli. Di conseguenza, nella teologia ebraica Yahweh è identificato come il vero Dio per il fatto che, a differenza degli dei delle altre nazioni, egli aiuta concretamente, dimostra empiricamente la sua potenza.

Furono soprattutto i Padri della Chiesa a sviluppare una pionieristica ermeneutica cristologica dell’Antico Testamento. I testi dell’Antico Testamento venivano letti principalmente in modo prefigurativo e allegorico, come la Chiesa fa ancora oggi, ad esempio nella liturgia della Veglia pasquale: il sacrificio di Abramo si riferisce al sacrificio di Cristo, l’attraversamento del Mar Rosso è un simbolo del battesimo, la Terra Promessa è l’eterna comunione di vita con il Risorto, e così via. In altre parole, questa interpretazione eleva la teologia di Israele e l’alleanza stipulata sul Sinai all’effettivo livello soprannaturale che è ontologicamente costituito in Cristo. In questo modo, Israele in quanto tale viene innalzato nella Chiesa come corpo mistico di Cristo. Esiste un contesto di riferimento tra i due Testamenti, ma è organizzato in modo strettamente cristocentrico.

La tanto decantata sublimazione dell’immagine di Dio dell’Antico Testamento nel discorso del Nuovo Testamento, quindi, non significa affatto che il Dio del Nuovo Testamento non presenti più tratti oscuri. In sostanza, la sublimazione consiste piuttosto nel processo descritto, per cui la sfera teologica dell’Antico Testamento diventa una sfera veramente soprannaturale e mistica: il centro del movimento di salvezza è la comunione interiore di vita dell’uomo con Dio aperta dalla gratia Christi, che ha come obiettivo essenziale la visio beatifica. Allo stesso tempo, da un punto di vista epistemico, ciò significa che l’Antico Testamento non può essere adeguatamente compreso da solo, ma che solo Cristo è il suo approccio ermeneutico decisivo. Nel corso dello sviluppo della teologia moderna, questo rapporto interpretativo si è invertito in una misura in cui la determinazione dell’azione salvifica di Gesù e dell’essere stesso di Gesù viene intrapresa in un continuum meramente lineare con l’approccio teologico di base alla salvezza nell’Antico Testamento. Ciò significa che il contesto della prefigurazione descritto sopra, che forma una peculiare composizione di continuità e discontinuità, in questa nuova ermeneutica viene abbandonato. Tuttavia, ciò significa niente meno che la perdita della teologia soprannaturale che ha caratterizzato la tradizione della Chiesa nell’interpretazione della Sacra Scrittura e fino alla liturgia. E l’intento di questa operazione non è affatto una vicinanza specificamente ricercata alla fede di Israele. Piuttosto, l’Antico Testamento viene strategicamente utilizzato ai fini di un generale spostamento assiale nella definizione dell’oggetto reale della fede cristiana. L’obiettivo è un cristianesimo orientato al mondo interiore, che si concentra su contesti empirici, naturali-morali, psicologici e politici. Come nel discorso quaresimale del papa, in questo orizzonte Dio appare come colui che vuole realizzare questo mondo cambiato attraverso il nostro impegno e migliorare la vita quaggiù.

Recentemente, il blogger Caminante Wanderer ha pubblicato un testo intitolato Ci hanno derubato della religione [5] in cui parla del nuovo arcivescovo di Buenos Aires, Jorge García Cuerva, recentemente nominato da papa Francesco, che in un video pubblicato sul sito della Conferenza episcopale argentina ha rivolto un saluto pasquale. Un sermone episcopale che si caratterizza soprattutto per il fatto di confondere indiscriminatamente la definizione teologica di Pasqua con l’Esodo e la Pasqua dell’Antico Testamento. Come nota giustamente Wanderer, il vescovo “non menziona affatto il Signore Gesù Cristo, cancellato dall’orizzonte della religione perché politicamente scorretto. Il primate parla solo di un Dio umanistico, sul quale Voltaire e i più feroci rappresentanti dell’anticristianesimo avrebbero concordato senza esitazione”.

Questo discorso episcopale è una delle innumerevoli manifestazioni della teologia della naturalizzazione descritta sopra. È logico che il vescovo, teologicamente molto vicino al papa in carica e certamente non approdato al suo posto per caso, non parli più della morte espiatoria sostitutiva di Cristo, ma solo della “liberazione” e dell’avvento di un mondo più giusto, che egli vede simboleggiato nell’esodo di Israele dall’Egitto e, in un senso ormai molto vago, nella Pasqua.

Come questo programma sia già stato attuato nella Chiesa grazie all’effetto catalizzatore di papa Bergoglio si può vedere anche in eventi altrettanto emblematici che vorrei citare brevemente. Ad esempio, il principale organizzatore della Giornata mondiale della gioventù dello scorso anno in Portogallo, che Francesco ha poi nominato cardinale, ha detto che l’obiettivo non era quello di convertire qualcuno a Cristo e alla Chiesa, ma che la cosa essenziale era che ognuno fosse semplicemente presente e accettato così com’è nel suo stato naturale di esistenza. L’aspetto decisivo è la naturale, sconfinata fraternità che, secondo Francesco, implica l’inclusionismo ecclesiologico secondo cui “tutti, tutti, tutti” appartengono ad essa. Il neo-vescovo di Hong Kong parla in modo simile, negando qualsiasi proselitismo e missionarietà, cioè qualsiasi ambizione cristocentrica da parte della Chiesa, e sostenendo invece di voler solo proclamare l’amore e la misericordia divina onnicomprensiva che si estende incondizionatamente a tutti, proprio come presumibilmente ha fatto Gesù.

E poiché la mariologia è stata una facoltà della cristologia fin dalle origini della Chiesa, il mariologo capo del Vaticano, padre Stefano Cecchin, sta ora normalizzando anche la Madre e, seguendo l’attuale magistero di papa Francesco, la sta adattando ai parametri emancipatori prevalenti oggi e all’ideale transculturale della riconciliazione. Tutto sommato, l’aspetto essenziale delle figure di Gesù e Maria, secondo il padre Cecchin, è quello di servirci da modelli amichevoli per una vita felice e realizzata, al di là dei messaggi inquietanti [6]. L’universo soprannaturale, dal discorso della mediazione della grazia di Maria alla teologia dell’espiazione, qui non appare più. In tutti questi fenomeni si manifesta sempre lo stesso processo di base: naturalizzazione e secolarizzazione di titoli teologici originariamente compresi in modo soprannaturale ma da tempo diventati imbarazzanti per coloro che dovrebbero essere chiamati a proclamarli e difenderli.

Agere contra ecclesiam

Definire Jorge Mario Bergoglio un ideologo può essere un’affermazione corretta, ma è soprattutto un’affermazione oggettivante. Non bisogna mai trascurare il fatto che Francesco non si vede come un ideologo, ma piuttosto come un esecutore della volontà divina, come Gladius Dei che deve combattere contro quelli che lui considera i nemici del sogno divino della terra promessa. Bisogna combattere gli “indietristi” faraonici e divisivi, con le loro ostinate pretese di verità. Non è senza ironia: Jorge Mario Bergoglio crede di avere una missione divina che consiste proprio nell’abolizione della missione.

Bergoglio sta combattendo l’ultima di tutte le guerre, che consiste nello sradicare i nemici della pace, cioè i nemici della fraternità universale ossessionati dalla tradizione, e questa guerra per porre fine a tutti i conflitti della verità e delle disuguaglianze è, secondo Carl Schmitt, la più crudele di tutte, perché deve dichiarare che l’avversario dell’armonia totale e incondizionata è un mostro morale [7]. È una jihad papale, che da sola può spiegare la costante rabbia contro i rappresentanti del dogmatismo religioso. Che questi rappresentanti siano i veri nemici di Dio deriva necessariamente dall’ideologia bergogliana dell’universalismo della fraternità naturale, chiamata a considerare tutto ciò che prima era considerato ortodosso nella Chiesa come un’eresia contraria a Dio e a bruciare i nemici sul rogo della tenerezza.

Mi sembra che solo la concezione di Jorge Mario Bergoglio come Gladius Dei possa spiegare adeguatamente i suoi atti. L’accusa teologica degli oppositori di questo pontificato, secondo cui Francesco starebbe agendo contro la Chiesa, è rivolta da Bergoglio stesso, e con intenzionale serietà, ai suoi critici. Questa è la “grande inversione” di cui parla Caminante Wanderer [8]. Per questo non sono d’accordo con l’arcivescovo Viganò circa l’idea che Jorge Mario Bergoglio, quando ha assunto il papato, abbia personalmente negato il consenso che presupponeva l’accettazione di ciò che la Chiesa voleva da lui. In nessun modo Francesco vuole deliberatamente qualcosa di negativo per la Chiesa. Se così fosse, Francesco dovrebbe comunque presupporre il concetto corretto di Chiesa in linea di principio. È vero il contrario: egli vuole solo il meglio per la Chiesa come la intende lui, e a tal fine sfrutta appieno le possibilità del suo ufficio. Vuole salvare la Chiesa proprio dalle mani di coloro la cui fede egli, come dom Hélder Câmara, considera nient’altro che una sovrastruttura ideologica, un’invenzione antigesuita di persone elitarie e rigoriste che amano fluttuare in mondi barocchi invece di occuparsi – come apparentemente richiede il Vangelo nell’interpretazione della teologia della fraternità universale – di socialismo globale, di promozione della condizione gay, di protezione dell’ambiente e di cambiamento climatico, nonché del maggior numero possibile di migranti musulmani da spedire in Europa.

In questo contesto, non solo diventa chiaro perché Francesco stia facendo una campagna così veemente contro persone come il cardinale Burke o il vescovo Strickland, mentre i vescovi Georg Bätzing e Franz-Josef Overbeck sono ancora in carica e possono sostanzialmente attuare la loro agenda senza ostacoli, ma diventa anche plausibile la solidarietà del papa con le élite finanziarie globali. Recentemente, José Arturo Quarracino ha pubblicato un testo in cui sottolinea, mi sembra correttamente, che Francesco non è propriamente un peronista, ma piuttosto un partigiano dei globalisti come Georg Soros [9]. Questa idea è supportata non solo dai vari atti politici, comprese le relative nomine nelle accademie papali, ma soprattutto dalla stessa teologia bergogliana. Resta da vedere, ovviamente, se la valutazione di Bergoglio sulle élite globaliste sia corretta, tuttavia egli presume che queste persone, con i loro programmi globali di capitalismo inclusivo, cambiamento ecologico, protezione del clima, superamento dei confini nazionali, promozione di una religione unica mondiale eccetera, stiano lavorando proprio allo stesso progetto formulato dalla sua teoria universale della fraternità e dalla sua comprensione della Chiesa come custode della “terra promessa” di questa fraternità naturale.

Il Cristo scomparso

Se si prendono sul serio le affermazioni del papa, la conclusione è inevitabile: nel suo universo spirituale non c’è più quell’essere soprannaturale in Cristo per il quale i martiri sono andati incontro alla morte, i missionari, a partire da San Paolo, hanno girato il mondo sotto le più dure privazioni e gli eremiti hanno voltato le spalle al mondo e fondato la vita religiosa contemplativa. Non c’è più quell’essere soprannaturale che in Cristo ha dato vita al ministero sacerdotale sacramentale, nonché alle liturgie e alla magnifica architettura delle chiese in cui viene comunicato e celebrato il contesto soprannaturale della vita. Questo significa anche, inevitabilmente, che per Jorge Mario Bergoglio non solo la Chiesa non esiste più come corpo mistico di Cristo, ma fondamentalmente Cristo stesso non esiste più.

Dopo una sua intervista a Francesco, Eugenio Scalfari sostenne che il papa non crede nella divinità di Gesù Cristo. Tenendo conto delle dichiarazioni effettivamente verificabili di Jorge Mario Bergoglio, ritengo altamente plausibile che Scalfari abbia riportato correttamente il pensiero papale. Come potrebbe Francesco credere nella divinità di Gesù se è proprio questo predicato teologico a rendere decisamente impossibile la teologia della fraternità naturale universale al di là delle tradizioni religiose secondarie? Se Gesù è il Cristo, la seconda persona divina incarnata, la sua opera non può mirare ad altro che alla costituzione di quella relazione soprannaturale di vita che consiste nell’unità mistica con sé stesso, aperta dalla grazia santificante. Se è il Cristo, egli stesso, e solo lui in persona, è la verità divina. Se è il Cristo, la sua morte è un atto di espiazione vicaria per rendere possibile questa stessa unità. Se è il Cristo, la questione della salvezza eterna e della catastrofe è decisa da lui solo. Se è il Cristo, egli stesso è l’oggetto centrale del culto e ogni ginocchio deve inchinarsi davanti a lui. Se egli è il Cristo, i sacramenti sono indispensabili come sua stessa azione sull’uomo per la salvezza, la Chiesa è sia la mediatrice centrale della salvezza sia la comunione soprannaturale con Cristo stesso, e ci deve essere una missione volta a convertire tutti gli uomini a lui in quanto Cristo. Se egli è il Cristo, non può esistere un discorso ecclesiale su Dio senza cristologia, perché egli è l’unica via d’accesso alla divinità, che solo in lui si rivela e si rende accessibile nel suo intimo mistero di vita. Se lui è il Cristo, Maria è la Madre di Dio e ha l’unica missione di condurci a suo Figlio.

Con questo Cristo non è possibile alcuna religione mondialista, perché nella sua autoaffermazione assolutistica egli rifiuta di essere relativizzato in qualsiasi modo. È assolutamente incomparabile. In breve: se Gesù è il Cristo, tutte le articolazioni, a partire dalle frasi citate di Jorge Mario Bergoglio fino alle innumerevoli dichiarazioni dei vescovi bergogliani, sono logicamente impossibili. Al contrario, ciò significa che queste affermazioni, sempre che questi signori siano ancora un po’ sani di mente, presuppongono la negazione consapevole, anche se esplicitamente non riconosciuta, della cristologia classica. Tutta la retorica della misericordia e dell’apparente vicinanza a Gesù nell’interpretazione bergogliana del Nuovo Testamento non può nasconderlo. In sostanza, Gesù appare in queste esegesi – come per Goethe – come l’autorevole avversario di Cristo.

Questo ci porta a una scoperta sconvolgente. A differenza di papi come Giovanni XXII od Onorio, che hanno frainteso singoli elementi del dogma della Chiesa, Francesco ha l’ardire di assumere l’intera tradizione ecclesiastica e di cambiare il segno dell’insieme. Così facendo, la Chiesa cattolica sta crollando completamente. La Chiesa di Jorge Mario Bergoglio non ha più nulla a che fare con la Chiesa della tradizione, ma è qualcosa di radicalmente diverso.

Nella prospettiva della Chiesa delle origini, Francesco non dovrebbe mai sovrapporre la categoria naturale della fraternità alla tradizione della Chiesa, perché vuole solo perpetuare un contesto che Paolo chiama – esplicitamente anche per quanto riguarda le questioni di interpersonalità – gli “schemata tou kosmou toutou” (1 Cor 7,31). Tuttavia, queste figure del vecchio mondo sono destinate da Dio a diventare in Cristo quel contesto soprannaturale di fraternità, cioè quella nuova creazione che la Chiesa cattolica media nelle sue pratiche sacramentali ed è già essa stessa. Solo lei è la “terra promessa”. Il lavoro di un papa dovrebbe concentrarsi con tutte le sue forze proprio su questa dimensione. Mentre Dio stesso si preoccupa di divinizzare l’uomo nella grazia soprannaturale e di far nascere un nuovo cielo e una nuova terra, la ristretta visione papale si concentra sul vecchio mondo e degrada il nuovo mondo, che è stato oggetto della tradizione della Chiesa per due millenni, a una questione di secondaria importanza. Questo è veramente grottesco.

Allo stesso tempo, la Chiesa deve richiamare l’attenzione del papa sul fatto che la decostruzione della missione, che il papa bolla come proselitismo, fissa l’uomo nel vecchio mondo, privandolo così in modo disumano di quella sfera soprannaturale verso la quale è ordinato a realizzare la sua umanità. La teologia della fraternità naturale non soddisfa l’“appetitus innatus” di cui si è parlato sopra, cioè la fame reale che è propria dell’uomo in quanto uomo. Solo la missione classica della Chiesa ama veramente l’uomo.

Ora dobbiamo ammettere che la tradizione teologica in cui si colloca Francesco ha sempre sostenuto questa trasmutazione.

Per inciso, sarebbe uno sforzo importante esaminare con precisione il ruolo che i tre papi predecessori hanno effettivamente svolto in questo processo. La questione è molto più complessa, soprattutto per quanto riguarda Joseph Ratzinger, di quanto le idolatrie conservatrici di Benedetto vogliano ammettere. Basta chiedersi come si possa spiegare che dopo i pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, durati oltre tre decenni, sia potuto accadere quello che stiamo subendo da undici anni. Questo non può avere a che fare solo con decisioni sbagliate di politica del personale e con una mancanza di giudizio psicologico.

Comunque sia, la Chiesa ha raggiunto uno stato in cui Cristo è diventato offensivo e imbarazzante per molti ministri. Sotto una forte spinta papale, lo spirito del mistero soprannaturale è in gran parte scomparso dalla Chiesa; è degenerato in un porcile. Ma il Signore non sopporterà questa negazione da parte della sua stessa Chiesa.

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1 Tony Palmer, The Miracle of Unity Has Begun. Bishop Tony Palmer & Pope Francis, in: Youtube, 28.02.2024

2 José Arturo Quarracino, Das politische Engagement von Jorge Mario Bergoglio ad maiorem Soros’ gloriam, in: Katholisches.info, 31.01.2024.

3 Rupert Johannes Mayer, Zum desiderium naturale visionis Dei nach Johannes Duns Scotus und Thomas de Vio Cajetan: Eine Anmerkung zum Denken Henri De Lubacs, in: Angelicum 85 (2008), 737–763

4 Striet exemplifiziert das hier dargestellte theologische Gefälle hervorragend. Von der klassischen Christologie der Kirche ist bei Striet nichts mehr zu finden. In den öden Strietschen Theorieversuchen wird sie, wie überhaupt alle traditionalen Überzeugungen, ins aufklärerische Flachland eingeebnet. Walter Homolka, Magnus Striet, Christologie auf dem Prüfstand, Jesus der Jude – Christus der Erlöser, Freiburg 2019

5 Caminante Wanderer: Nos robaron la religión, in: Caminante Wanderer, 01.04.2024.

6 Giuseppe Nardi, „Bestimmte Bilder von Maria sind heute nicht mehr nachvollziehbar“. Ein Interview mit Pater Stefano Cecchin von der Päpstlichen Marianischen Akademie und der Beobachtungsstelle für Marienerscheinungen, in: Katholisches.info, 16.10.2023.

7 Carl Schmitt, Der Begriff des Politischen, Berlin 92015, 35.

8 Caminante Wanderer, La gran inversión, in: Caminante Wanderer, 02.10.2023.

9 José Arturo Quarracino, Das politische Engagement von Jorge Mario Bergoglio ad maiorem Soros’ gloriam, in: Katholisches.info, 31.01.2024.

Fonte: katholisches.info

 

Aldo Maria Valli:
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