In questi giorni, come avete visto, Duc in altum è diventato il collettore di innumerevoli attestazioni di solidarietà, stima e affetto nei confronti di monsignor Carlo Maria Viganò dopo che l’ex nunzio apostolico negli Stati Uniti è stato convocato dal Vaticano per rispondere del delitto di scisma.
Ho deciso di mettermi a disposizione di tutte queste voci in modo spontaneo, perché in genere non lo fa nessuno. In una Chiesa che parla tanto di inclusività e adotta lo slogan “todos, todos, todos”, in realtà ci sono tantissimi fedeli che si sentono isolati e abbandonati.
I messaggi di solidarietà all’arcivescovo Viganò manifestano soprattutto riconoscenza, ed è significativo, perché il monsignore ha intercettato questa sofferenza e si è fatto in un certo senso rappresentante di una larga fetta di cattolici del tutto emarginati. Sacerdoti e vescovi dovrebbero essere i loro interlocutori e punti di riferimento, ma non lo sono. E spesso, davanti al grido di dolore di questi fedeli, fanno spallucce o reagiscono in modo arrogante e spocchioso.
Qualcuno mi ha scritto per dirmi che non dovrei prestarmi a questa operazione. Non dovrei, cioè, dare voce a fedeli fanatici o incolti che non hanno alcuna idea dell’unità ecclesiale.
Davvero curiosa questa critica che arriva da chi si riempie continuamente la bocca con la nozione di “popolo di Dio”. Per costoro il “popolo” è formato soltanto da chi marcia allineato e coperto sotto le insegne del progressismo. Tutti gli altri non sono che reietti o individui pericolosi. E che coerenza da parte di chi si dice paladino di quel Bergoglio che ha fatto della misericordia la sua insegna e più volte ha tuonato contro la “cultura dello scarto”!
Bisognerebbe poi interrogarsi sull’idea di unità anteposta a quella di verità. In nome dell’unità è legittimo adulterare, ammorbidire e relativizzare la verità?
Altri messaggi molto duri mi arrivano da parte di persone che mi accusano non solo di dar voce a gente che andrebbe soltanto abbandonata al proprio destino, ma anche di mettermi dalla parte di uno scismatico. Altra circostanza assai curiosa. Chi mi accusa appartiene allo schieramento che ama definirsi legalista, eppure in questo caso ha già emesso la sentenza.
Abbiamo poi la reazione di cattolici che, pur definendosi conservatori, di fronte a ciò che monsignor Viganò denuncia a viso aperto sostengono che l’arcivescovo avrebbe oltrepassato i limiti di un’ammissibile critica al papa. E quand’è che questi limiti si oltrepassano? Quando, in sostanza, si arriva a mettere in discussione la legittimità del papa, cioè il suo stesso essere papa.
Ora, capisco benissimo che per un cattolico arrivare a contestare la legittimità del successore di Pietro vuol dire varcare una soglia cruciale. L’idea stessa di superare quella frontiera può suscitare sgomento. D’altra parte, constato che, al punto in cui siamo, rispetto al pontificato di Bergoglio la questione appartiene ormai all’orizzonte comune di tanti fedeli che proprio non riescono, in coscienza, a vedere in Francesco la roccia. E non ci riescono perché Francesco non solo non li conferma nella fede, ma sembra fare di tutto per liquidare il depositum fidei.
Anche da questo punto di vista mi sembra che monsignor Viganò abbia intercettato un sentire diffuso e, anziché voltarsi dall’altra parte o pronunciare frasi a mezza bocca, ha deciso di farsene interprete. Dobbiamo, per questo, considerarlo un nemico della Chiesa? Oppure dobbiamo prestare attenzione alle sue argomentazioni considerando che vengono da un pastore con una profonda esperienza delle vicende ecclesiastiche?
La linea di Duc in altum la conoscete. Noi qui prestiamo attenzione alle argomentazioni dell’arcivescovo. Le prendiamo sul serio e riteniamo che, se davvero si vuole il bene della Chiesa, non si possa fare altrimenti.
E proprio a questo proposito penso che sarebbe il caso, da parte di monsignor Viganò, di tornare sul concetto che sta al centro della sua visione. Mi riferisco al vizio di consenso (vitium consensus) da parte di Bergoglio nell’accettare l’elezione. Se l’analisi di tutti i mali (anzi, chiamiamoli pure disastri) causati da questo pontificato sembra ormai sufficientemente dettagliata e ricca di documentazione, avverto invece il bisogno di indagare più a fondo sul concetto di vizio di consenso.
In un suo testo dell’ottobre dello scorso anno monsignor Viganò scrisse: “L’evidenza dell’estraneità di Bergoglio alla carica che ricopre è certamente un fatto doloroso e gravissimo; ma prendere coscienza di questa realtà è la premessa indispensabile per porre rimedio ad una situazione insostenibile e disastrosa”.
Detto in due parole, la domanda di Viganò è la seguente: nel conclave del 2013, quando i cardinali votarono per lui, Jorge Mario Bergoglio accettò la nomina per servire la Chiesa cattolica o la chiesa sinodale? Per essere defensor Fidei o difensore del globalismo progressista? Per portare la luce del Vangelo di Gesù nel mondo o per insegnare che Dio stesso ha voluto la diversità delle religioni (come ha scritto nella Dichiarazione di Abu Dhabi)?
Per monsignor Viganò, se ho capito bene, la risposta arriva proprio dall’osservazione del pontificato di Bergoglio. Lì possiamo vedere che l’ex arcivescovo di Buenos Aires, una volta arrivato sulla cattedra di Pietro, si è dimostrato “palesemente ostile alla Chiesa”. Ma questa osservazione empirica può essere sufficiente per attestare il vizio di consenso e dunque l’illegittimità di Francesco? E come si potrebbe procedere in tal senso?
Inoltre, che cosa pensa monsignor Viganò dell’altra idea sostenuta da chi si è schierato per l’illegittimità di Francesco, e cioè che invalida sia stata la rinuncia di Benedetto XVI e dunque, di conseguenza, anche il conclave che ne è seguito?
Penso che monsignor Viganò eserciterebbe altamente la virtù della carità se ci aiutasse (ancor più di quanto non abbia già fatto) ad affrontare questi nodi rispetto ai quali tanti di noi rischiano di girare a vuoto senza trovare una via d’uscita.