Cronache dalla grotta / La guerra (giusta) e la pace (falsa)

di Rita Bettaglio

Nella grotta giugno è stato a lungo assente, ma la cosa è persino gradevole: il cielo nuvoloso e qualche goccia di pioggia fanno godere i pomeriggi festivi più di quelli assolati. Essi sono lunghi perché è giugno, ma freschi perché è come se non lo fosse. Evviva!

Oggi è passato di qui un saggio, un uomo di Dio, che mi ha detto cose che molto mi hanno fatto riflettere.

Si parlava dell’anima di quanto essa vada soggetta a variazioni repentine.

Lui mi ha detto: i momenti di serenità e di pace sono un’eccezione. La maggior parte del tempo trascorre nella battaglia.

Come, come? faccio io. In che senso?

Ergo praeparanda sunt corda nostra et corpora sanctae praeceptorum oboedentiae militanda, risponde. San Benedetto nel Prologo della Regola invita a preparare i cuori e i corpi a militare sotto la santa obbedienza.

Il santo di Norcia istituisce una scuola del servizio divino. Per noi, scuola significa luogo dove qualcuno insegna e altri imparano, un luogo tutto sommato tranquillo. Clifford Hugh Lawrence, nel suo Il monachesimo medievale, ci spiega quanto segue:

Nel linguaggio del VI secolo il termine scola aveva un significato militare e anche uno accademico; nel linguaggio militare si intendeva un reggimento speciale o corps d’élite. Nel primo Medioevo il Borgo Romano – la parte della città che si trovava fuori dalle mura aureliane tra San Pietro e il Tevere – era difeso da scolae, o unità della milizia, mantenute dalle varie nazionalità che erano insediate in quel distretto. Benedetto usava la parola in questo senso. Il suo monastero non era un luogo di tranquillo ritiro o di piacere, e neanche una scuola nel senso accademico del termine; era una sorta di unità di combattimento, in cui la recluta veniva addestrata ed equipaggiata per la sua guerra spirituale sotto la guida di un esperto comandante: l’abate.

Ah, ecco.

Ma quali battaglie deve sostenere ogni giorno il monaco e noi pure con lui?

Anche se non sappiamo rispondere precisamente a questa domanda, sappiamo bene come ognuno aspiri alla pace e alla tranquillità. E se vi aspiriamo vuole dire, ipso facto, che sappiamo che sono merce rara.

Incerto e volubile è il cuore dell’uomo. Basta una nuvola passeggera, che copra il sole per un istante, e il nostro essere è turbato e neppure sa dire perché.

Cerchiamo affannosamente la pace e pensiamo che, soddisfatti i desideri e le passioni che ci agitano, essa arriverà e resterà in noi. Ma non è così. Cerchiamo stabilità, che è cosa buona, ma la cerchiamo nelle cose transeunti e mutevoli, la prima delle quali siamo noi stessi.

“Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi”, dice Gesù (Gv 14,27).

Ora capisco: noi cerchiamo la pace come la dà il mondo. Il mondo dà una pace farlocca, taroccata, ingannevole ed evanescente. Restiamo, infatti, ogni volta con un palmo di naso, ma continuiamo a cascarci.

Misuriamo tutto (anche questa è una fissa che non riusciamo a toglierci), anche lo stato della nostra anima, in base alla “pace” e al benessere che proviamo. Talora ce lo siamo sentito domandare anche dal confessore: questo o quello ti dà pace?

Ma quale pace poteva avere Abramo quando saliva il monte sapendo che avrebbe sacrificato il figlio Isacco, il suo unico figlio? Eppure, faceva la volontà di Dio, ciò che Egli gli aveva comandato.

“La donna, quando partorisce, è afflitta, perché è giunta la sua ora”, dice Nostro Signore, “ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’afflizione per la gioia che è venuto al mondo un uomo” (Gv 16,21).

Noi spesso vorremmo il bambino senza i dolori del parto. Se giudichiamo in base al dolore, il parto è un male, una sofferenza, ma una mamma dimentica ogni dolore quando ha tra le braccia il suo bambino.

“Perciò”, mi ha detto quell’uomo di Dio, “non dare peso alle battaglie della mente e non trarre da esse conclusioni sullo stato della tua anima”.

Io, che sono assai più terra a terra, penso a quando preparo qualche cibo un po’ elaborato: viene sempre un momento in cui sembra che il caos abbia il sopravvento. Disordine, pentole sporche dappertutto e la sottile tentazione di mettersi a piangere perché tutto sembra fuori controllo. Poi, superato il culmine, le cose si sistemano: le pentole sporche, che parevano mille, in realtà sono solo due o tre e la pietanza è riuscita ad andare in forno e lì riposa tranquilla. E anch’io, sfatta ma soddisfatta, mi sfracello un po’ sul divano.

Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, dicevano le nostre mamme. Tra il sembrare e l’essere c’è una torma di mosconi, come la chiamava san Francesco di Sales, che ci confonde e c’impaurisce. Ma sono solo mosconi…

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