Il cibo per l’anima molto più importante di quello per il corpo. Una testimonianza dai nostri fratelli d’Oriente

di Michela Di Mieri 

Un vecchio adagio recita che fa molto più rumore un albero che cade di un’intera foresta che cresce.

Accanto all’albero che sta rumorosamente cadendo, trascinato a terra da una Chiesa traditrice e suicida, da un’antropologia distopica veicolata dai grandi mezzi di informazione (o di disinformazione) e da un progetto geopolitico che ci sta rapidamente portando alla Terza guerra mondiale, ci sono foreste sconosciute ai più, che silenziosamente crescono, portando ossigeno e vita, piccole oasi di luce e speranza che hanno del miracoloso.

Mi è capitato di imbattermi in un’intervista a Emanuele Bisogni, dell’associazione Una voce nel silenzio, che organizza missioni in alcune delle terre più martoriate del nostro pianeta: Kosovo, Palestina, Siria, Armenia e, con la collaborazione dell’associazione Vento dell’Est, nel Donbass.

Gli aiuti alle popolazioni vanno dalla mera raccolta e distribuzione di cibo, giocattoli, materiale didattico e altri beni di prima necessità, a programmi più strutturati, con l’obiettivo di incidere stabilmente sulla qualità della vita, con un occhio particolare all’infanzia, futuro del popolo, tramite opere quali la costruzione di un impianto sportivo in un villaggio in Palestina, o di un parco giochi nella Repubblica popolare di Lugansk.

Se, fin qui, non ci sono troppe differenze con altre associazioni umanitarie che operano in territori di guerra, il discorso cambia completamente quando si va ad analizzare la cifra di questa specifica organizzazione.
La sua peculiarità, infatti, è quella di voler coniugare un messaggio politico di autodeterminazione dei popoli con la fede cristiana.

Non solo il supporto e la solidarietà sono rivolte, innanzitutto, ai villaggi cristiani, molto spesso fatti oggetto di persecuzioni e violenze efferate, ma gli stessi volontari che partecipano alle missioni si ritrovano immersi in un vero e proprio percorso spirituale.

“Satana lotta contro Dio e il loro campo di battaglia è il cuore degli uomini”. In queste parole del grandissimo Dostoevskij sta l’assunto della loro visione militante, etica ed esistenziale.
Le guerre cui assistiamo oggi vanno lette come un conflitto tra una visione del mondo materialista e una in cui lo spirito e l’anima rivestono ancora un’importanza centrale nella vita degli uomini.

Nel corso dell’intervista, Emanuele ci racconta un episodio che ci dà la misura dell’abisso che separa l’Occidente dal Donbass.

2022, villaggio di Severodonetsk, nella Repubblica popolare di Lugansk. A poche centinaia di metri dalla linea del fronte, con il lugubre accompagnamento del suono dei colpi d’artiglieria, i volontari effettuano una distribuzione di cibo per quella gente, rimasta senza nulla tra le macerie in cui il loro villaggio è ridotto. Davanti al furgone dell’associazione si forma una fila di circa trecento persone. Nel bel mezzo dell’operazione, si avvicinano alcuni soldati russi di ritorno dal fronte, tutti contenti per aver riconquistato, la notte precedente, una chiesa. Un soldato tiene nelle mani tante piccole icone del santo a cui la chiesa è consacrata, probabilmente l’Arcangelo San Michele, e si mette di fianco al furgone per distribuirle. Con grande sorpresa dei volontari italiani, le persone si allontanano per andare a prendere la loro piccola icona davanti alla quale pregare in casa, alla maniera dei cristiani orientali, e solo successivamente ritornano al furgone per il cibo, e neppure tutte: quella gente reputa più importante, più fondamentale, dare cibo e nutrimento alla propria anima che al proprio corpo.
Il Donbass, ci dice Emanuele, è la parte spirituale dell’uomo che noi occidentali abbiamo perso.
E torna alla mente sempre Dostoevskij: “L’Occidente è finito quando si è dimenticato di Dio”. Un Dio che in quelle terre si sente, è presente nella difesa dei valori tradizionali, della famiglia, dei bambini, che sono il tesoro di tutta la comunità, nelle chiese e nei monasteri della Serbia, della Siria, dell’Armenia, del Donbass, che non sono disertate neppure se infuriano i tagliagole, i droni o i missili occidentali, neppure se il tetto è crollato e tutt’intorno è macerie e distruzione.

In quelle terre la Terza guerra mondiale è una realtà già da tempo. Per quelle genti, combattere con le armi della Fede e della guerra è naturale: sono abituate, pronte, temprate, e lo faranno con determinazione fino alla fine.
E noi? Noi molli, pavidi, giovin signori occidentali? Noi che non abbiamo la benché minima statura spirituale per poter fare fronte allo sforzo psicologico ed esistenziale che un conflitto richiede? Che sarà di noi, delle nostre anime?
Questa è la morale che mi porto a casa dalla lezione dell’Oriente della sacra terra d’Europa: non tutto è perduto. Nel fragore assordante e terribile degli alberi che stanno rovinando al suolo, c’è la silente foresta di una nuova generazione di europei, dell’Europa cristiana dei popoli, che tiene accesa la luce. Il futuro non è ancora perduto.

 

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