Tutti noi cattolici cresciuti negli anni del post Concilio Vaticano II siamo stati educati a una regola: con gli altri bisogna sempre essere comprensivi, gentili, pacati, aperti. Mai dare segni non dico di aggressività, ma nemmeno di combattività. Tentare di convertire? Non sia mai. Il cattolico al massimo può ascoltare e dialogare, ma nel solo senso di comprendere le ragioni degli altri, senza pretendere di esporre le proprie. Se non ti limiti a dialogare ma dai qualche segno di conflittualità, vuol dire che sei un fondamentalista, un dogmatico. E poco importa che la nostra Chiesa, la santa Chiesa cattolica, sia proprio la Chiesa dei dogmi. Dal Concilio in poi è diventata la “Chiesa del dialogo”, e il dialogo è diventato, paradossalmente, una sorta di super-dogma incontestabile. E quanto vale ad extra vale anche ad intra. Così, eccoci approdati alla “Chiesa sinodale”, dove tutti ascoltano tutti ma, al di là della sinodalità stessa, si fa fatica a scorgere una proposta degna di questo nome.
In tale contesto, l’apologia è stata messa da parte, come un ferrovecchio di cui vergognarsi. E la disputa, come forma di discussione e ragionamento, è stata del tutto vietata perché non in linea con la nuova mentalità aperta, disponibile, amichevole.
Non che sia arrivato un ordine specifico. Semplicemente, ci si è adeguati a una mentalità. Ci si è auto-normalizzati. E certamente il lungo pontificato di Giovanni Paolo II, con l’insistenza sulla retorica del cattolico che deve chiedere perdono, ha dato un forte contributo al clima generale di remissività e, alla fine, di passività.
L’opinione pubblica cattolica ha sofferto gravi conseguenze a causa di questo orientamento. Molto spesso, oggi, un cattolico non sa argomentare, non sa dare ragione della propria fede. Quando si trova a confronto con altri, sa solo ascoltare, docile e malleabile, senza proporre nulla. E quando addirittura viene attaccato violentemente, come nel caso dei vari gay pride, si volta dall’altra parte, come se nulla fosse successo, come se non ci fosse stata alcuna offesa.
Siamo diventati imbelli e codardi, questa la verità. E ovviamente siamo più ignoranti di quanto lo fossero i nostri padri nella fede, perché per esercitare l’ascolto ci è stato chiesto semplicemente di essere carini, non di studiare. Anzi, chi si azzardava a frequentare testi di apologetica, a difesa ed esaltazione della fede e della retta dottrina, era considerato un provocatore da emarginare.
Questa totale arrendevolezza ci è stata presentata come caritatevole, quando invece è proprio il contrario della carità. Per il cattolico il massimo della carità è testimoniare la Verità, ma l’ideologia del dialogo è arrivata a identificare la carità con la passività.
Un’ideologia, quella del dialogo, che si è nutrita dell’idea della dignità di ogni persona. Concetto, non a caso, puntualmente rispuntato in un documento vaticano recente come Dignitas personae. E in nome della dignità altrui il cattolico ha finito col perdere la propria, diventando una canna esposta al vento mutevole del mondo.
La grande vittima dell’ideologia del dialogo è stata la Verità, sacrificata in nome del confronto aperto, disponibile, amichevole.
Una breve ma significativa spiegazione di questo orientamento si trova nella lettera che papa Francesco inviò a Eugenio Scalfari nel settembre del 2013, là dove si afferma: “È venuto ormai il tempo, e il Vaticano II ne ha inaugurato appunto la stagione, di un dialogo aperto e senza preconcetti che riapra le porte per un serio e fecondo incontro”.
Una frase che suona bene, come deve suonare bene ogni concetto espresso dal cattolico normalizzato. Ma anche una frase che sa di prodotto preconfezionato e, soprattutto, sa di vecchio. Perché se l’esigenza del “dialogo aperto” poteva nutrire i sogni degli ingenui negli anni Sessanta del secolo scorso, oggi, dopo che atei, massoni e anticattolici d’ogni risma ci hanno presi d’assalto e il “fecondo incontro” si è rivelato per noi cattolici un disastro senza precedenti, sostenere ancora quella tesi significa essere ciechi o irresponsabili.
Tempo fa mi capitò di ascoltare un’omelia in cui si parlava di una proposta di missione per i giovani. Devo dire che restai basito. Il frate predicatore fece di tutto per eliminare ogni contenuto cattolico e ridurre la proposta a un generico “accompagnamento”. Ma perché? In vista di che cosa? Il cattolico normalizzato non lo specifica. Non lo deve specificare.
Siamo al grado zero. Il dialogo per il dialogo, l’accompagnamento per l’accompagnamento, la sinodalità per la sinodalità. E tutto ciò proprio mentre da più parti sale la richiesta di contenuti forti, autentici, decisivi per la vita di quaggiù e per il destino dell’anima.
Recentemente un commentatore cattolico che leggo sempre volentieri, Eric Sammons, ha scritto: “I nostri avversari non vogliono sedersi allo stesso tavolo con noi: vogliono annientarci”. È ormai palese. Eppure si insiste sulla strada senza uscita del “dialogo aperto”.
Scrive ancora Sammons: “Oggi viviamo in un’epoca in cui forze potenti, nel governo, nei media, nel mondo accademico e in altre istituzioni d’élite stanno lavorando attivamente per sradicare la nostra fede e preparare i nostri figli alla depravazione”. E nei confronti di questi signori vogliamo ancora applicare la strategia del “fecondo incontro”? Ma per favore!
Usciremo mai da questo stato di narcosi a cui ci ha condotti l’ideologia del dialogo nutrita dal falso mito del rispetto.
Purtroppo i nostri pastori dimostrano di essere ancora pienamente invischiati in quell’ideologia suicida. Loro sono i primi a dimostrarsi normalizzati. Per cui o tacciono, o si trincerano dietro fumisterie buone per ogni uso e circostanza o, peggio ancora, si accompagnano con il nemico.
Appunti per i compiti: tornare a essere Chiesa militante, adottare tecniche da battaglia, prediligere la disputa e smetterla con il falso dialogo costruito sulla base dell’idea che vivere nella verità e per la Verità sia una pretesa di cui ci si debba spogliare.
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Nell’illustrazione, Andrea di Buonaiuto, La Chiesa militante e trionfante (particolare)