di Michela Di Mieri
Quasi dimenticata ai nostri giorni, Colomba di Sens, vergine e martire, fu una delle sante maggiormente venerate lungo tutto il Medioevo. Il cuore del suo culto fu la Francia, specie da quando il re Lotario III fondò sul sepolcro della santa l’abbazia reale di Sainte-Colombe-les-Sens, la cui chiesa venne distrutta nel 1792, durante la Rivoluzione francese. Ma ebbe una buona diffusione anche in Italia: nel Quarto secolo il vescovo Stennio accolse e ripose nella cattedrale di Rimini reliquie del capo della santa portate da alcuni mercanti sorpresi da una tempesta e costretti ad approdare nel porto. La venerazione popolare fu tale da proclamarla tra i santi protettori della città adriatica. Tradizionalmente, il suo martirologio è il 31 dicembre, sebbene sia poi stato spostato al 27 luglio.
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Era bella Eporita da Cordova, di una bellezza verginale e delicata. Era bella, di quella bellezza ancora acerba e densa di promesse che accompagna una fanciulla appena sbocciata alla giovinezza.
Aveva quindici anni quando fu portata al cospetto dell’imperatore Lucio Domizio Aureliano, in un freddo giorno alla fine di dicembre dell’anno 273.
Quando il centurione consegnò all’imperatore la lista dei nomi dei cristiani catturati durante uno di quei loro empi raduni sovversivi, ad Aureliano andò di traverso il vino nel ritrovarvi un’appartenente a un’antica e nobile famiglia dell’Hispania: l’ennesima giovane patrizia che, invece di pensare a diventare una brava matrona pronta a mettere al mondo tanti soldati per Roma, aveva rinnegato il mos maiorum per quel menagramo di ebreo!
Inoltre, quell’inconveniente proprio non ci voleva: egli si trovava a Sens, nella Gallia Lugdunense, per riportare le province secessioniste delle Gallie sotto il dominio imperiale, non certo per convincere qualche esaltato che si rifiutava di bruciare incensi agli dei patri.
Risolse, dunque, di sbrigare la faccenda nel minor tempo possibile e iniziò subito a farsi portare gli accusati.
Venne il turno di Eporita.
Aureliano, dopo una rapida osservazione e un paio di domande, aveva capito perché, dopo il suo battesimo, le avessero dato il nome di Colomba: sembrava non esserci, sulla terra, nulla di più puro e candido di quella giovane dai profondi occhi scuri.
Al termine dell’interrogatorio, si trovò a pensare che sarebbe stato disposto a cedere qualche territorio di una provincia romana purché almeno un briciolo delle virtù muliebri di quella ragazza albergassero ancora nelle donne dell’Urbe, così voluttuose, dedite a ogni sorta di intrigo, avide di potere e ricchezze. E così gli balenò in mente una soluzione per salvare lei dalla condanna a morte e, contemporaneamente, dare alla sua discendenza una madre della caratura dell’antica Lucrezia.
“Ascolta, Eporita, tu sei una fanciulla virtuosa e bella, e in te non ravviso alcuna velleità di rivolta. Perciò, ti darò in sposa a mio figlio, e potrai continuare a onorare il tuo Dio ebreo crocifisso; soltanto, non instillerai questa perversa superstizione nella testa dei miei nipoti, che dovranno crescere nel culto degli dei di Roma”. L’imperatore credeva che la fanciulla si sarebbe gettata ai suoi piedi piena di riconoscenza: non le aveva neppure chiesto di bruciare il grano d’incenso a lui per tema di un suo diniego! Quei folli dei cristiani si facevano uccidere piuttosto che dimostrare quel semplice, innocuo atto di obbedienza! Davvero quel loro Dio doveva essere ben crudele se, unico tra gli innumerevoli dei del vasto impero, chiedeva ai suoi adepti un sacrificio simile pur di non riconoscere la sovrana autorità dell’imperatore romano.
Mentre pensava a queste cose, gli giunse, straniante e lontana, la risposta di Colomba. “Lucio Domizio Aureliano, imperatore e principe dell’augusta stirpe di Roma, io sono onorata per la tua proposta, e l’accetterei ben volentieri, se fossi libera. Poco dopo il mio battesimo, mi sono consacrata tutta e per sempre al mio Signore e Salvatore Gesù, il Cristo, e dunque non potrò unirmi a nessun uomo sulla terra, alla maniera delle vestali”.
L’uomo più potente della terra guardò e riguardò l’esile ragazzina che gli stava in piedi di fronte. Quelle parole erano uscite da quel mucchietto d’ossa? Da quella bocca nascosta sotto il capo reclinato? Come poteva, quella pazza, rifiutare una proposta così generosa e che ogni fanciulla in età da marito di tutto l’impero non si sarebbe neppure sognata? Aveva osato rifiutare l’onore del talamo imperiale? Bene. L’avrebbe destinata a ben altre unioni!
“Soldati! Portate questa sfrontata in una cella meretricia dell’arena! E poi giocatevi a sorte chi di voi avrà il piacere di farle conoscere cosa significa essere il trastullo di un uomo romano!”.
Colomba fu portata via tra le grida e le risate dei soldati, che inneggiavano alla generosità e sagacia del loro imperatore e già si litigavano il succulento premio così inaspettato.
La cella era una piccola stanzetta in penombra, occupata per metà da un giaciglio sporco e maleodorante. Più del buio, dei rumori che poco lasciavano all’immaginazione provenienti dalle celle vicine, dall’odore del terrore che promanava dalle stanze dei gladiatori che stavano per andare incontro alla morte con alte imprecazioni, più di tutto, quello che angosciava maggiormente la povera Colomba era il sentirsi abbandonata da quel Dio a cui lei si era totalmente promessa. Com’era possibile che potesse accaderle questo? Alla morte, e a una morte cruenta e dolorosa, era stata preparata: sapeva cosa avrebbe rischiato, quando aveva deciso di battezzarsi contro il volere della sua famiglia. Ma quello, no. Quello non era previsto. Come poteva Gesù permettere che la sua sposa venisse profanata in quel modo? La sua anima si smarriva nella disperazione, incapace di trovare la serenità e la lucidità anche solo per poter pronunciare una preghiera.
D’un tratto il cancello si aprì e apparve l’uomo che l’aveva vinta ai dadi. Il soldato era completamente incurante dello stato pietoso in cui versava Colomba, alla quale un pallore mortale aveva spento il bellissimo incarnato olivastro; le si avvicinava, slacciandosi l’armatura, con lo sguardo fisso sul suo corpo, gli occhi bramosi di un leone che stia per divorare una gazzella, spingendola verso il muro. Lei, istintivamente, chiuse gli occhi e si coprì il viso con le braccia, in un disperato tentativo di sottrarsi alla violenza, e proprio quando il palpito del cuore, impazzito, stava per esploderle nelle orecchie facendola svenire, si sentì un orribile ringhio, un boato profondo e nero come la notte, e poi, subito, rumori di colluttazione, un tonfo come di un corpo che cade e urla del soldato che corre via in preda al panico. Poi il silenzio.
Colomba aprì piano piano gli occhi e vide accucciata ai suoi piedi un’orsa, una di quelle che venivano usate nei ludi o per dilaniare i suoi confratelli. Essa stava ferma con il muso rivolto verso l’ingresso della cella e non permetteva a nessuno di entrarvi.
La ragazza capì all’istante; nel trambusto che imperava fuori da quella sordida cella trasformatasi in un lavacro di purezza, si fece ancora più piccola, fino quasi a sparire dietro al corpo dell’animale che Dio aveva mandato per salvarla e, mentre l’accarezzava tremante, piangeva di riconoscenza e di rammarico per la sfiducia che aveva nutrito in Lui. Le sue povere forze umane avevano dimenticato che Egli è fedele e che non tradisce.
Da quel momento, nessuno osò neppure pensare di violare quella strana ragazzetta, ed Aureliano, desideroso solo di chiudere una faccenda che rischiava di sfuggirgli dalle mani, ordinò di mettere al rogo sia Colomba sia l’orsa, certamente vittima di un qualche sortilegio di quella setta di depravati.
Il mattino in cui doveva avere luogo l’esecuzione annunciava una fredda giornata di sole. Un vento deciso che spirava da Settentrione faceva presagire che le fiamme appiccate alla sterpaglia ai piedi dei roghi si sarebbero alimentate velocemente.
Contrariamente al timore dei soldati, che si erano armati dalla testa ai piedi, l’orsa, al momento in cui andarono a prelevarle, si lasciò guidare docile come un cagnolino verso le pire, attenta soltanto che nessuno toccasse Colomba, che le camminava accanto.
Il fuoco stava ormai per lambire i piedi della fanciulla e le zampe della bestia, quando, improvvisamente, il vento si fece impetuoso e portò su un cielo divenuto plumbeo dense nubi cariche di pioggia; un violento temporale si abbatté su Sens, spegnendo all’istante le fiamme e disperdendo la folla che, impaurita da tutti quei prodigi, gridava di lasciare stare la ragazza e l’animale, certamente protette degli dei. Nella confusione e nel tumulto, Colomba si liberò dalle corde che la legavano al palo e subito sciolse i lacci alle zampe dell’orsa, intimandole di scappare. L’animale la guardava immobile, senza dare il minimo accenno di volersi allontanare da lei. La fanciulla allora capì, e le disse: “Vai, orsa cara, puoi stare tranquilla, ora. Nessuno di questi uomini oserà toccare il mio corpo. Potranno ucciderlo, ma il mio voto al Signore mio Sposo sarà onorato. Scappa, scappa veloce, prima che i soldati si accorgano che sei libera: io ho scelto di essere cristiana, tu non devi pagare per me”. La bestia leccò le mani della ragazza e, con pochi veloci balzi, fu in salvo tra i boschi, senza che alcun soldato avesse avuto il coraggio di tentare di ucciderla.
Aureliano era fuori di sé dall’ira. Quella che doveva essere una pratica di poco conto, per suo eccesso di generosità, stava diventando una faccenda ben insidiosa. Tra il popolo e nella truppa si stava già diffondendo l’opinione che il Dio ebreo di Colomba fosse molto più potente degli dei di Roma e dell’imperatore stesso, e questo era intollerabile. Si sa come il volgo sia influenzabile e dunque si rischiava una conversione di massa, quando non un appiglio per i comandanti ribelli all’autorità imperiale per dimostrare che gli dei erano invisi ad Aureliano. Occorreva agire al più presto e con discrezione.
Affidò il compito a un suo fidato luogotenente, che aveva dato prova di non temere nulla, neppure gli dei, nel corso delle tante campagne belliche vissute insieme.
Il militare, seppur restio, obbedì e agì con estrema freddezza e rapidità: per quanto fosse un intrepido guerriero, aveva pur sempre di fronte una protetta degli dei, oppure una strega. Senza mai guardarla negli occhi o parlandole, e toccandola il meno possibile, di notte e all’insaputa delle truppe prelevò Colomba dalla sua cella, la condusse nel bosco subito fuori da Sens e raggiunse la fonte d’Azov, da cui gorgogliava copiosa un’acqua vigorosa, per coprire le grida, nel caso la ragazza si fosse ribellata. La fece inginocchiare e si pose alle sue spalle.
Colomba si incantò a guardare l’acqua limpida che levigava in mille fruscii lievi e senza posa le pietre della fonte, e disse tra sé e sé: “Mio Gesù, quando ti vedrò, per l’eternità vorrò bere della purezza, vorrò bearmi dell’armonia, vorrò gioire della letizia che la tua casa incessantemente mi doneranno. Che io ne sia degna, mio dolce sposo”.
Un lampo passò lungo il suo collo. Tutto si fece buio, ma senza dolore. Gli occhi ancora aperti e pieni di meraviglia rotolarono nell’erba. Il soldato tirò un sospiro di sollievo, lavò la spada nel torrente, e se ne andò, lasciando il corpo della ragazza alla mercé degli animali del bosco.
Ma nessun animale si nutrì del sangue innocente della bella Eporita: un’orsa si era posta a guardia di quel corpo straziato, affinché nessuno si avvicinasse. Ed era ancora lì quando, alle prime luci dell’alba, fece capolino un uomo cieco, che era solito recarsi alla fonte per prendere l’acqua. Stranamente, l’orsa non gli impedì di avvicinarsi e quello, ignaro di tutto, proseguì il tragitto che aveva impresso nella memoria. Solo che, sui suoi passi, quel mattino stava riverso il corpo di Colomba, ed egli vi inciampò e cadde. Il suo viso finì sopra il sangue ormai rappreso e dai suoi occhi cadde il velo del buio.
L’uomo capì cosa fosse successo e a chi appartenessero quei poveri resti. Prese subitamente a credere nel Dio di quella ragazza e, dopo averle dato degna sepoltura, corse a Sens, per annunciare a tutti quale prodigio gli fosse capitato e che c’era un solo vero Dio a cui rendere onori.
L’orsa, che era rimasta in disparte, nascosta come solo gli animali selvatici sanno fare, si alzò e, dopo aver dato un’annusata al tumulo di terra fresca, seppe che poteva tornare dai suoi cuccioli: nessuno, animale o uomo, avrebbe mai più osato insidiare le carni consacrate al Signore dell’Universo.
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