La Pontificia accademia per la vita ha pubblicato un Piccolo lessico del fine vitache contiene una serie di voci (da cure palliative a eutanasia, da sedazione profonda a disposizioni anticipate di trattamento) bisognose di essere precisate.
Spiega l’Accademia: “Si intende così contribuire, con un linguaggio comprensibile anche ai non addetti ai lavori, a chiarire e a utilizzare in modo corretto termini spesso difficili da interpretare. L’auspicio è di ridurre almeno quella componente di disaccordo che dipende da un uso impreciso delle nozioni implicate nel discorso.
Ma il documento apre purtroppo a scelte di fatto eutanasiche, come ben spiega il dottor Paolo Gulisano in questo contributo scritto per Duc in altum.
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di Paolo Gulisano
La Pontificia accademia per la vita fu un organismo fortemente voluto da papa Giovanni Paolo II e istituita con il motu proprio Vitae mysterium trent’anni fa, nel 1994, con il fine di difendere e promuovere la vita umana e la dignità della persona.
Dal 15 agosto 2016 il presidente è l’arcivescovo Vincenzo Paglia. Negli intenti di Giovanni Paolo II, l’Accademia doveva avere un compito di natura prevalentemente scientifica, per la promozione e la difesa della vita umana, in particolare studiando i vari aspetti che riguardano la cura della dignità della persona nelle diverse età dell’esistenza, la difesa della dignità di ogni singolo essere umano, la promozione di una qualità della vita che integri il valore materiale e spirituale.
Il dibattito sul tema del fine vita e le implicazioni di carattere religioso ed etico-morale sono da lungo tempo al centro del dibattito scientifico, bioetico, politico e giuridico.
Come tutti i dibattiti di questo tipo, nell’opinione pubblica, sui social e i media regna sovrana la confusione e la faziosità partigiana.
Giunge dunque opportuna da parte della Pontificia accademia per la vita l’iniziativa di proporre, come è stato fatto, un Piccolo lessico del fine vita che, attraverso una serie di voci esplicative e di approfondimento, da “eutanasia” a “cure palliative”. Avvalendosi di collaboratori scientifici (le cui nomine negli ultimi anni sono state assai discutibili, avendo inserito nell’Accademia molti non-cattolici) il documento dichiara di voler contribuire a chiarire e a saper utilizzare nel modo corretto i termini aiutando chi cerca di districarsi in queste tematiche.
Com’è stato recepito il manuale? A leggere i commenti della stampa, come un’apertura sul tema del fine vita e del suicidio assistito per la “ricerca di mediazioni sul piano legislativo”.
Il documento, ripetiamo, è un semplice glossario, e non ha nessun valore da un punto di vista dottrinale e magisteriale. Tuttavia potrebbe diventare un punto di riferimento per eventuali dichiarazioni e prese di posizione da parte di organismi di governo vaticani ai quali l’Accademia offre il proprio supporto. Per i media, da subito i contenuti del lessico sono diventati la posizione ufficiale della Chiesa. Sicuramente tali interpretazioni trovano giustificazioni nelle parole dell’Introduzione di monsignor Paglia che parla di posizioni nuove e più aperte al dialogo tanto più nel “contesto pluralista e democratico delle società in cui il dibattito si svolge, soprattutto quando si entra nel campo giuridico”. Ecco dunque che la questione, da medica, diventa giuridica. Il testo certamente ripropone un rifiuto dell’eutanasia, il rilancio delle cure palliative (“non sono la medicina della rassegnazione”, tuttavia “possono emergere ragioni per interrogarsi se, in determinate circostanze, possano ammettersi mediazioni sul piano giuridico in una società pluralista e democratica, in cui anche i credenti sono chiamati a partecipare alla ricerca del bene comune che la legge intende promuovere”).
Tale possibilismo “pluralista” si manifesta in una delle più discutibili affermazioni del glossario, là dove si dice che è possibile interrompere nutrizione e idratazione definite – accettando il comune lessico ideologico – “artificiali”, quando in realtà andrebbero definite assistite. Nella neolingua ideologica il termine “assistita” viene attribuito alla fecondazione in laboratorio, che quindi è assolutamente artificiale, mentre in realtà l’alimentazione assistita, necessaria quando ci sia una forma di disfagia per cui il paziente non riesce ad auto-alimentarsi, è definita erroneamente come artificiale. Un escamotage linguistico che il glossario di Paglia sembra accettare senza avere nulla da eccepire.
Nonostante l’ostentato riferimento all’illeceità morale dell’eutanasia secondo la tradizione del Magistero, questa approvazione della sospensione di idratazione e alimentazione porterebbe a pratiche de facto eutanasiche.
Una pericolosa crepa nella diga che la Chiesa seppe erigere a suo tempo contro la cultura della morte.
Un’altra voce che stupisce negativamente nel vocabolarietto è quella che riguarda il senso e il valore del dolore: “È smentita una visione che celebra il dolore come strumento di redenzione, visione talvolta erroneamente sostenuta anche nella tradizione cristiana”. Che sia erronea è tutto da dimostrare: a fronte di questa affermazione del lessico ci sono secoli di testimonianze nella vita e nella letteratura spirituale. Basterebbe a monsignor Paglia e ai suoi collaboratori andare a rileggersi la Lettera apostolica (che quindi ha valore di Magistero) di Giovanni Paolo II del 1984 Salvifici doloris, o leggersi più laicamente il Diario di un dolore di Clive Staples Lewis, una riflessione sul dolore a partire da una straziante perdita personale.
Questa incapacità della Chiesa attuale di penetrare nel mistero della sofferenza è la stessa che abbiamo constatato negli anni scorsi, durante l’epidemia di Covid. Una Chiesa attonita di fronte a quanto stava accadendo, incapace di esprimere un giudizio proprio, appiattita sulle parole d’ordine dei poteri politici.
Non è un caso che nel lessico sia totalmente assente ogni riferimento alla pandemia, come se non avesse avuto nulla da insegnare, e per un documento che affronta il tema del fine-vita è una mancanza molto grave.
L’epidemia da Covid, infatti, ha fornito un pretesto per incrementare la cultura della “buona morte” e le pratiche letali dell’eutanasia. Ad esempio, in piena pandemia venne approvata in Nuova Zelanda una legislazione che liberalizzava l’eutanasia e il suicidio assistito. Il termine utilizzato fu proprio “Assisted dying”, il morire assistito. Un abile gioco linguistico che sottintende, come specificava il ministero della Salute neozelandese, che “una persona che sta vivendo una sofferenza insopportabile per una malattia terminale possa assumere o ricevere farmaci per porre fine alla propria vita”. Esistono criteri di ammissibilità per avere una morte assistita. Questa legge introduceva l’idea secondo cui eutanasia e suicidio assistito devono essere possibili per persone affette da malattie, come anche il Covid, “probabilmente” terminali. Ma esistendo un dubbio, dovrebbe essere necessario fare tutto il possibile per curare e guarire il malato. Si parla anche di condizione di “declino fisico irreversibile” e di “sofferenza insopportabile”, concetti piuttosto discutibili dal punto di vista scientifico.
Si deve assolutamente evitare che la politica apra porte molto pericolose per i pazienti anziani e vulnerabili, per i quali non venissero indicate cure efficaci e là dove la “fine delle sofferenze” fosse indicata come ultima soluzione.
Ma cosa intendono i propugnatori dell’eutanasia per “sofferenza insopportabile”? Una sofferenza definita “inutile” dalle posizioni del lessico di Paglia. Questo concetto è estremamente indefinito, e può ed è stato interpretato nel modo più ampio in modo che le giurisdizioni includano anche disturbi assolutamente comuni nella vecchiaia. Il dolore insopportabile è spesso presentato come una ragione per giustificare il suicidio assistito dal medico, ma cosa conta come “insopportabile”? Ovviamente, non c’è demarcazione scientifica. Ciò che è considerato insopportabile è, per definizione, altamente soggettivo in quanto tutti abbiamo la capacità di sopportare la sofferenza. Inoltre, il dolore dovrebbe essere solo fisico o includere anche il dolore mentale?
Il Codice olandese sull’eutanasia 2018 afferma: “Affinché la richiesta di eutanasia di un paziente sia presa in considerazione, la sua sofferenza deve avere una dimensione medica. Tuttavia, non è un requisito che ci sia una condizione medica pericolosa per la vita. Sindromi geriatriche multiple – come problemi alla vista, problemi di udito, osteoporosi, osteoartrite, problemi di equilibrio o deterioramento cognitivo – possono causare sofferenze insopportabili senza prospettive di miglioramento”.
Il segnale inviato a tutte le persone vulnerabili rendendo disponibile il suicidio assistito sulla base di “sofferenza o dolore insopportabili” è terribile. Li invita tutti a svalutare la propria vita.
Una medicina che non si propone di eliminare la sofferenza, ma il sofferente, non è più l’arte del curare che è stata per duemila anni. È la logica perversa che sta dietro anche ad altre forme di eutanasia, dell’abbandono terapeutico, della rinuncia alla cura. Una medicina asservita a normative che non riconoscono alcun valore alla vita umana sofferente.
Questa deriva della medicina, questo “Grande Reset”, è in atto da tempo, ed è ormai evidente. Forse non così evidente per i compilatori del Lessico dell’Accademia pontificia. Sarebbe opportuno che tali lacune venissero colmate e corrette dal Magistro Supremo della Chiesa.