Cari amici di Duc in altum, è con totale adesione e profonda gratitudine che pubblico questa lettera che va non solo letta, ma meditata. L’autrice è mamma e medico.
***
di Elena Martinz
Carissimo Aldo Maria,
leggendo in Duc in altum gli elenchi degli abusi liturgici, ho rivissuto i miei ultimi trent’anni di vita in cui, te l’assicuro, li ho visti tutti, ma anche di molto molto peggio. Resisto alla tentazione di stilare io stessa il mio personale elenco, anche perché una parte di esso l’avevi già pubblicata circa un anno fa, in una precedente lettera [qui].
Al contrario, vorrei condividere con te una pietruzza sulla quale sono inciampata e che mi ha fatto risvegliare dal torpore in cui anch’io ero caduta. Quella pietruzza è stata forse il primo di una serie di doni della Provvidenza che ha contribuito, nei vent’anni successivi, a farmi uscire da una sorta di ipnosi, un incantesimo diabolico che pare aver colpito quasi l’intero orbe cattolico.
Quella pietruzza ha un nome: agonia.
Hai mai tenuto in braccio un bambino piccolo in agonia? Un innocente, il cui corpicino è scosso dagli spasimi della lotta tra la vita e la morte?
Non è qualcosa che si può descrivere a parole: si può solo contemplare in silenzio. Può essere vissuto come momento di disperazione o di grazia. Non ci sono altre vie. Tutti i rumori, le parole, le filosofie, le ideologie di questo mondo si infrangono contro quei rantoli che sembrano non finire mai, contro quello sguardo intenso che pare voglia scavarti dentro, contro quelle manine che si aprono e si chiudono intorno alle tue dita, come un uccellino che si affaccia al suo primo volo e non è ancora pronto a mollare la presa dal bordo del nido.
Successe quasi diciotto anni fa, ma il ricordo di quelle manine, di quel respiro, di quell’abbandono è vivo in me ogni singolo giorno.
Eppure riesco a scrivere di loro solo oggi: Philipp e Raphael avevano appena cinque anni e avevano alle spalle una vita innocente, inchiodata a un lettino, senza nemmeno la consolazione di una mamma e di un papà nei pressi della loro croce. Anche le loro braccine e i loro piedini erano distesi e immobili, bloccati dai dolorosissimi chiodi della spasticità. L’addome perforato da cannule per nutrirli, la gola riarsa per l’impossibilità di bere. Il loro petto scosso da rantoli e affanno in cerca di aria, o da spasimi di vomito… ai quale seguiva prontamente l’inserimento di una sottile cannula per aspirare ciò che impediva loro di respirare. Questa è stata la loro quotidianità e io, insieme a pochi altri, ho fatto del mio meglio per stare lì, cercando di prendermi cura di loro quasi come una mamma. E ti assicuro che mi sono sempre sentita indegna. Erano dei crocifissi, in tutto e per tutto.
Nonostante la fatica, poterli tenere tra le mie braccia nei rari momenti in cui non avevano bisogno di macchinari o aghi è stato uno dei doni più preziosi di cui ringrazio Dio ogni singolo giorno. Eppure, come sai, Dio esagera sempre in generosità e ha voluto farmi una grazia ancora più grande: quella di essere presente il giorno in cui Lui li ha richiamati a Sé.
Non la definisco una grazia per il fatto che penso che il momento della morte sia qualcosa di “bello”; non condivido assolutamente l’idea quasi “romantica” della morte che molti romanzi e film attuali vogliono inculcare nelle menti fragili dei nostri figli. È stata una grazia perché penso che il tempo dell’agonia, come quello della nascita, sia un tempo sacro, un tempo che appartiene a Dio.
È stata una grazia perché, mentre stringevo quei corpicini tremanti e sfiniti dalla lunga battaglia, non solo percepivo la presenza del Cielo che si stava aprendo per accoglierli, ma intuivo che un simile mistero si compiva all’ennesima potenza ogni volta che partecipavo al Mistero della Salvezza durante la Messa.
Allora era solo una intuizione. Ora, dopo qualche anno di partecipazione alla Messa di san Gregorio Magno, lo sperimento.
Un esempio? Alle parole “Accetta, Padre santo, onnipotente eterno Iddio, questa ostia immacolata, che io, indegno servo tuo, offro a te, Dio mio vivo e vero, per gli innumerevoli peccati, offese e negligenze mie, e per tutti i circostanti, come pure per tutti i fedeli cristiani vivi e defunti, affinché a me e a loro torni di salvezza per la vita eterna” non posso non ricordare ciò che la mia mente riusciva solamente a balbettare quando, tanti anni prima, contemplavo Raphael e Philipp mentre soffrivano gli spasimi dell’agonia.
Ricordo che li vedevo puri e immacolati, piccoli martiri, vittime di una violenza subita da chi avrebbe dovuto amarli. Ricordo che in quelle ore chiedevo a Dio di accettarli e di perdonare chi aveva fatto loro del male; di avere pietà di me, totalmente indegna di tenerli tra le mie braccia deboli, negligenti, insudiciate di peccati; indegna di baciare la loro piccola fronte febbricitante con queste mie labbra che tante volte si erano aperte per offendere o per dire cose inutili. In quei momenti mi sentivo letteralmente una lebbrosa coperta di stracci puzzolenti a cui fosse stata fatta la grazia di abbracciare la persona più pura.
Tremavo, davanti a quel mistero. Solo molti anni dopo ho scoperto che proprio le parole del Santo Sacrificio, così come sono state scritte nel corso dei secoli sotto la vera guida dello Spirito Santo (si leggano Offertorio e Canone pre-conciliari), riescono finalmente a esprimere ciò che provai allora.
Raphi (e così fu anche per Philipp), durante le lunghe ore dell’agonia, ansimava e rantolava in un modo che mi è difficile descrivere: pareva quasi che il suo petto minuto scoppiasse sotto la tutina colorata. Per tutto quel tempo, nessuno di coloro che era presenta nella cameretta ebbe il coraggio di parlare, se non per sussurrare preghiere. Alla porta avevamo affisso un cartello che avvisava di non disturbare, in modo che nessuno entrasse senza motivo e senza il dovuto rispetto. Si affacciarono solo un paio di medici, senza far rumore, quasi inchinandosi dinanzi a quel corpicino. Nessuno osò muovere le mani, se non per accarezzare con estrema delicatezza il viso di Raphael, detergendolo dal sudore. Chi era presente con me quel giorno si inginocchiò a terra: per supplicare Dio che accorciasse quella sofferenza indescrivibile, perché questa è l’agonia di un bimbo innocente; per tentare di rendere il nostro corpo il più accogliente possibile per quello di Raphi, completamente abbandonato al nostro abbraccio, nella speranza di alleviarne il dolore; per chiedere perdono a Dio della propria indegnità. Ogni nostro movimento fu fatto in maniera lentissima, con una attenzione, una tensione, che oserei definire liturgica. Questo ci venne assolutamente spontaneo fare in quel momento.
Anni dopo, durante una delle prime Messe Vetus Ordo a cui partecipai, al momento della consacrazione celebrata ad Orientem, venni nuovamente catapultata in quella cameretta e capii. Fu una folgorazione e piansi. Quel giorno compresi la grazia che Dio mi aveva fatto tanti anni prima. Quel giorno mi resi conto di ciò a cui stavo assistendo durante ogni Messa: un Mistero davvero grande, sacro, separato dalle cose e dalle occupazioni effimere di questo mondo.
Nel momento dell’elevazione, il sacerdote stringe tra le sue dita il cuore agonizzante di Cristo, come tra l’altro ci confermano numerosi miracoli eucaristici.
Se ne fossimo consapevoli, non servirebbe essere liturgisti per stare in ginocchio, in profondo silenzio, sentendoci indegni… proprio come si sente chi si trova ad assistere all’agonia di un bimbo innocente.
Nel momento stesso in cui Raphael emise il suo ultimo respiro fummo pervasi da una profonda commozione: era la certezza che la sua Vita fosse cominciata in quell’istante. L’eternità ci aveva sfiorati. Lo stesso accadde per Philipp.
Se questo è vero per dei bambini, seppur innocenti, quanto più dovrebbe traboccare il nostro cuore di gratitudine nel poter ricevere dentro di noi il corpo innocente e agonizzante di nostro Signore Gesù Cristo! Quello stesso corpo che è Risorto e che ora siede alla destra di Dio Padre Onnipotente!
Gli abusi nascono in parte dalla malafede, ma spesso anche da una completa ignoranza di ciò che è la Messa cattolica.
Se il sacerdote e i fedeli fossero consapevoli, anche solo minimamente, di ciò che avviene durante la Messa, gli abusi scomparirebbero all’istante.
Ecco perché condivido con te questa mia povera esperienza che fu per me simile a quella dell’apostolo Tommaso. Egli toccò il corpo di Cristo, infilando letteralmente il dito nel Mistero della Salvezza. “Mio Signore e Mio Dio” è il trattato teologico che questo Apostolo ci ha tramandato e queste sue parole sono ciò che ripeto ogni Messa, al momento dell’elevazione.
Nei quasi trent’anni di abusi a cui ho assistito, dapprima inerte, poi sempre più afflitta, mi è capitato di spiegare questo mio stato d’animo proprio in questi termini al figlio più grande, che porta il nome di uno di quei bimbi che ho avuto il privilegio di cullare nell’ora dell’agonia.
Quella cameretta in cui Raphi prima e Philipp poi vissero gli ultimi istanti di questa vita fu per me un luogo sacro. Nessuno avrebbe dovuto osare varcarne la soglia chiacchierando, con fare indifferente e frettoloso, senza il minimo segno di rispetto per quello che stava succedendo lì dentro. In caso contrario, il malcapitato si sarebbe trovato davanti una piccola ragazza poco più che vent’enne che lo avrebbe cacciato fuori con uno sguardo severo. Grazie a Dio non ce ne fu bisogno perché nessuno osò profanare quel luogo e quel momento.
Anni dopo, invece, avrei fatto esperienza in maniera crescente di quella mancanza di rispetto sia in Chiesa sia negli ospedali (per fare un esempio che mi riguarda da vicino), oserei dire, parallelamente. E, di pari passo, aumentarono anche la mia indignazione e il mio disagio. La mia intolleranza nei confronti di chi tratta Cristo (o, in ambito lavorativo, un paziente) con quella presuntuosa leggerezza tipica di molti “abusatori”, è alimentata solo e sempre da un bruciante dolore. È come se ogni volta qualcuno mi strappasse il corpicino di Philipp dalle braccia per poi gettarlo sgarbatamente e frettolosamente sul lettino, lasciandolo lì a soffrire da solo, senza pietà.
Dove è finita la pietà? Quella pietas che nobilita l’essere umano e lo distingue dalle bestie o, per usare un termine biblico, dagli empi.
Troppe volte oggi viene violentata la sacralità dell’agonia in molti ospedali: quanti medici si sentono padroni della vita e della morte dei pazienti (anche di quelli non nati), negando loro quello spazio, quel tempo e quella presenza che questo momento decisivo della vita richiede? Allo stesso modo troppi sacerdoti agiscono come presidenti di un’assemblea, come padroni di casa, organizzatori indaffarati e protagonisti indiscussi di un (più o meno) allegro banchetto, durante il quale stanno seduti (quando non stravaccati) su un trono, dando addirittura le spalle allo Sposo che credono di servire.
Se anche noi, che ci definiamo cristiani, rimaniamo indifferenti e perfino sprezzanti davanti al Mistero di quella Croce che ci contraddistingue, come possiamo essere testimoni credibili e non apparire come attori che recitano una parte inutile e vana in una commedia nel teatro dell’assurdo? Sì, perché è così che ci vedono “i lontani”, quando la nostra pietà si riduce a una finzione e non è autentica.
La Croce è una cosa seria, così come lo è l’agonia di un bimbo innocente, anche (e forse soprattutto) se non ha mai corso, parlato o sorriso in vita sua (come Philipp o Raphael).
Il Mistero di Salvezza racchiuso in quell’Ostia immacolata, in quel Sacro Cuore agonizzante, abbraccia tutte le cose create, visibili e invisibili. Non è un di più, in cui si può credere o meno, a seconda delle proprie scelte. No: è qualcosa che riguarda tutta la creazione, senza eccezioni.
Per questo è urgente che dai successori degli Apostoli si elevi un nuovo trepidante “mio Signore e mio Dio”, mentre toccano con timore e tremore le piaghe di Cristo Crocifisso. È urgente che essi tornino a trasmettere la consapevolezza di partecipare al Santo Sacrificio e non a una festicciola che tentano in tutti i modi, invano, di rendere “instagrammabile”, cioè appetibile per questo mondo.
Finché ciò non accadrà con sempre maggior consapevolezza, non credo sia possibile pretendere dall’umanità ferita e incredula quel rispetto per la sacralità della vita in grado di fermare ogni tipologia di guerra con lo sterminio che ne consegue (compresi, ad esempio, l’aborto e l’eutanasia).
Inutile quindi organizzare veglie per la pace, durante le quali si corre senza posa da una navata all’altra della chiesa senza nemmeno un inchino davanti all’altare, totalmente indifferenti alla presenza del tabernacolo, quasi a voler essere dei coreografi intenti a coordinare un gruppo di attori e musicisti amatoriali, che si preparano a inscenare un’opera teatrale, con tanto di applauso finale.
Torniamo a notare il tabernacolo quando entriamo in una Chiesa, cercando quella lucina accesa che ci ricorda che in quella angusta stanza batte un Cuore trafitto. Solo credendo avremo la Pace, quella vivificante, quella eterna, che solo in quel Cuore ha la sua sorgente.
Cor Jesu Sacratissimum, miserere nobis!