A volte noi che soffriamo per il pontificato di Francesco abbiamo la presunzione di pensare che tutto il problema sia nato adesso, o nel 2013. Ma innumerevoli testimonianze (basterebbe solo quella di monsignor Marcel Lefebvre) ci dicono che è almeno da sessant’anni che la Chiesa cattolica viene condotta fuori strada da “piloti” desiderosi di adeguarla al mondo.
Tra le testimonianze più accorate c’è una lettera che Marcel De Corte scrisse all’amico Jean Madiran nel 1970 e qui riassumo. Per tanti aspetti, sembra scritta oggi ed è ricca di giudizi folgoranti, che ci aiutano a fare chiarezza. Nel tratteggiare il profilo di Paolo VI, l’autore coglie alcuni punti che non possono non farci pensare a Francesco, sebbene papa Montini sia stato, teologicamente e culturalmente, un gigante rispetto all’ignoranza e alla superficialità di Bergoglio.
Nato nel 1905 e morto nel 1994, De Corte fu filosofo, erede della grande tradizione aristotelica, contemporaneo di Jacques Maritain, Étienne Gilson, Gabriel Marcel e Gustave Thibon. Insegnò all’Università di Liegi fino al 1975. Collaboratore della rivista cattolica Itinéraires e autore di più di venti opere di riflessione filosofica, si interessò soprattutto alle evoluzioni sociali derivate dalla Rivoluzione francese e dalla Rivoluzione industriale, specie per quanto riguarda la disintegrazione morale e sociale dell’uomo moderno.
Nella lettera inviata a Madiran, il filosofo inizia confessando di aver provato più volte la tentazione di abbandonare la Chiesa cattolica, ridotta a un sacco di grano infestato dai parassiti. “Se non l’ho fatto – spiega – devo ringraziare il buon senso contadino”.
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Soffriamo la carestia, siamo affamati di soprannaturale. Il numero dei sacerdoti che ci distribuiscono il pane dell’anima diminuisce a un ritmo allarmante. Nella gerarchia le cose vanno anche peggio. E i vertici, dai quali potremmo sperare in qualche consolazione, sono disastrosi.
Confesso che Paolo VI mi ha ingannato a lungo. Pensavo che cercasse di preservare ciò che è essenziale. Non essendo un papa, e nemmeno un sacerdote, mi sono detto: “In virtù della sua posizione, lui vede quello che io non posso vedere. Pertanto mi fido di lui, anche se non mi piace la maggior parte delle sue azioni, dei suoi atteggiamenti e delle sue affermazioni, e le sue continue manovre mi fanno girare la testa. Pover’ uomo, è da compatire, soprattutto perché è evidente che non è all’altezza del compito… Ma comunque, con l’aiuto di Dio…”.
Tuttavia non c’è esempio nella storia di un ingannatore che non finisca per essere smascherato. Se ti sforzi troppo di essere qualcosa che non sei, finirai per rivelare la tua vera natura. Troppa astuzia è controproducente. Gli uomini sono disposti a tollerare un piccolo inganno, soprattutto quando ha un tocco italiano. Ma c’è un limite, e al di là di esso si smette di essere un buon attore e si diventa prigionieri della propria farsa, intrappolati nelle proprie imprese illusionistiche.
La svolta per me è arrivata con la polemica sulla Santa Messa. Lo dico con molta calma e riflessione: sono stufo. Non mi prenderanno in giro.
Come può osare Paolo VI proclamare che non esiste una “messa nuova”, che “nulla è cambiato”, che “tutto resta come prima”, quando non rimane più nulla o quasi della Messa che tanti santi hanno amato? Quando gli “esperti” incaricati di lavorare a questo progetto di demolizione per motivi di pubblica utilità l’hanno più volte descritta come una vera “rivoluzione” liturgica? Quando le coscienze semplici dei semplici fedeli sono state scosse da questo disordine? Come esclamava una vecchia uscendo dalla chiesa la prima domenica di Avvento, travolta dal ‘nuovo rito’ (l’espressione è di Paolo VI, al quale piace giocare con le contraddizioni): “Quella? Una messa? Non si riconosce più!”. Il celebrante, per distrazione o fretta, aveva omesso la consacrazione del vino! Ma cosa importa in una messa in cui il concetto di sacrificio è, per definizione, assente?
Non ripeterò qui gli argomenti contro questa nuova liturgia. Altri, informati, competenti e affidabili, lo hanno già fatto e lo hanno fatto bene. Quando le opinioni degli esperti coincidono con il buon senso di un cristiano comune non è necessario aggiungere i propri commenti. Tutto è già stato detto da illustri specialisti, esperti teologi e canonisti, sacerdoti e religiosi, e anche da quella buona popolana che ha espresso la più profonda e accorata protesta delle masse cristiane contro questa “trasformazione”. I fedeli lo percepiscono istintivamente: “Non c’è più nulla di cattolico”.
Questa messa rappresenta, nel suo insieme e nei suoi dettagli, un sorprendente allontanamento dalla teologia cattolica della Santa Messa, così come formulata nella ventiduesima sessione del Concilio di Trento, che, fissando definitivamente i canoni del rito, erigeva una barriera insormontabile contro ogni eresia che potesse minacciare l’integrità del Mistero. Le severe parole del cardinale Ottaviani difficilmente possono essere contestate da chiunque in buona fede abbia studiato il nuovo Ordo Missæ e considerato tutti i suoi dettagli. Nessuno in buona fede può ignorarne la dura realtà dopo aver ascoltato, come abbiamo fatto in Belgio dopo il 30 novembre, ogni domenica e a Natale, “la nuova messa” prefabbricata dai tecnocrati della fede. Stretto tra una pomposa e teatrale Liturgia della Parola e una Liturgia del Cibo self-service, il Santo Sacrificio della Messa, cioè l’essenziale, viene liquidato in un batter d’occhio da un sacerdote che, nove di ogni dieci volte, secondo la mia esperienza, sembra non credere nemmeno per un solo istante in quello che sta facendo.
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Da parte mia, mi tappo accuratamente le orecchie con la cera. Mi nascondo in fondo alla chiesa dietro una tenda. Ho letto la Santa Messa nel Messale che mi ha dato la mia santa mamma dopo che l’edizione precedente che mi aveva già dato era caduta a pezzi. Durante quella sciocchezza che ormai passa per una predica ho letto l’Imitazione di Cristo in latino. Partecipo con tutto il cuore al rinnovamento del Sacrificio del Calvario. Costringo il sacerdote che distribuisce la Comunione nelle mani delle “pecore” che gli è stato ordinato di domare a darmela nella cesta della comunione, dove mi inginocchio. E durante il frastuono finale, esco a meditare, pregando affinché il Signore mi renda ancora più sordo al clamore del mondo, in senso sia letterale che figurato.
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Devo dire che a volte mi arrabbio quando sento qualche idiozia che arriva alle mie orecchie, come questa, di cui garantisco l’autenticità: “Preghiamo, fratelli miei, perché tra i giovani d’ambo i sessi, uniti dalla somiglianza delle acconciature e dei vestiti, non ci sarà più differenza di sesso.” Ma puoi abituarti a tutto, anche alle sciocchezze più ridicole. Come ha detto Léon Bloy, bisogna essere parsimoniosi nel disprezzo, perché sono molti quelli che se lo meritano.
Non nascondiamo la verità. Il nostro rifiuto implica un giudizio sugli atti e sulle parole di Paolo VI, e anche sulla sua persona, con la quale dobbiamo, nostro malgrado, praticare la virtù della “correzione fraterna”, che san Tommaso d’Aquino considerava un’estensione delle virtù dell’elemosina e di carità, e che, secondo lui, bisogna esercitare anche pubblicamente presso i propri superiori, dopo aver esaurito ogni mezzo occulto per farlo (II-IIae, q. 33). Si può tranquillamente presumere che un inferiore rispettoso dell’autorità pontificia come il cardinale Ottaviani non abbia reso pubblica la sua lettera commemorativa a Paolo VI senza aver prima esercitato tutta la possibile prudenza diplomatica. “Se un superiore è virtuoso – scrive un commentatore della Summa – accetterà con gratitudine ogni avvertimento che possa dargli chiarezza. Sarà il primo ad ammettere che è giusto avvertirlo e che non è intoccabile sotto tutti gli aspetti”. E aggiunge, seguendo san Tommaso, che l’avvertimento deve essere pubblico “quando, ad esempio, un superiore dichiara pubblicamente eresie manifeste o provoca grande scandalo, mettendo così in pericolo la fede e la salvezza dei suoi subordinati”.
ll cardinale Ottaviani non è certo il solo a pensare che Paolo VI, con le sue parole e le sue azioni, “si discosti in modo sorprendente dalla teologia cattolica della Santa Messa”. È infatti inconcepibile che il papa si sia limitato a sfogliare un documento così importante e lo abbia firmato con noncuranza. L’Ordo Missæ e la nuova messa che rifiutiamo fortemente sono stati voluti e imposti da Paolo VI a tutti i cattolici.
Come è possibile un simile atteggiamento da parte di un papa in un momento così critico della storia della Chiesa? Non posso fare a meno di pormi questa domanda. E non posso più tacere la mia risposta. La posta in gioco è troppo alta perché i laici possano lasciare che sacerdoti di ogni ordine e grado combattano da soli, senza il sostegno di alcuni fedeli che hanno avvertito il pericolo contro lo scandalo della nuova messa.
Non si tratta di indignarsi, per quanto allettante possa essere, ma di comprendere.
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Paolo VI è un uomo pieno di contraddizioni. È un uomo che esalta il Santo Sacrificio della Messa in termini grandiosi e tradizionali nel suo Credo del Popolo di Dio ma lo minimizza nella nuova messa che egli impone al cristianesimo cattolico.
Questo è l’uomo che prega in San Pietro e nella Casa di Riflessione di stampo massonico delle Nazioni Unite. Questo è l’uomo che dà udienza a due attrici deliberatamente e provocatoriamente vestite con minigonne, ma poi si esprime contro la crescente ondata di sessualizzazione nel mondo. È l’uomo che dice al pastore Boegner che i cattolici non sono abbastanza maturi per il controllo delle nascite con la “pillola”, ma pubblica Humanæ vitae, lasciandola però mettere in discussione da intere conferenze episcopali.
È l’uomo che proclama che la legge sul celibato ecclesiastico non sarà mai abolita, ma permette che venga messa in discussione all’infinito, rendendo più facile farlo ai preti che desiderano sposarsi. È l’uomo che vieta la comunione sulla mano, ma permette, anche autorizzando alcune chiese, con apposito indulto, che la distribuzione delle ostie consacrate venga effettuata dai laici. Questo è l’uomo che lamenta “l’autodistruzione della Chiesa”, ma che, pur essendone il capo, non fa nulla per fermarla, lasciandola così avvenire con il proprio consenso.
Si potrebbe fare un elenco infinito delle contraddizioni del papa. L’uomo stesso è contraddizione permanente e versatilità, nonché ambiguità fondamentale.
Pertanto, ci sono due possibilità. Un uomo che è incapace di superare le proprie contraddizioni interne, e le mostra apertamente a tutti, è incapace di superare le contraddizioni esterne che incontra quando governa la Chiesa. È un papa debole e indeciso, come altri nella storia della Chiesa, che nasconde le sue esitazioni dietro un torrente di retorica che l’imperatore Giuliano, detto l’Apostata, chiamava, parlando dei vescovi ariani del suo tempo che così abilmente la praticavano, “l’arte di minimizzare ciò che conta, esagerando ciò che non conta e sostituendo la realtà delle cose con l’artificio delle parole”. A volte, in un’unica frase di un discorso papale, il bianco e il nero si uniscono e conciliano attraverso trucchi sintattici.
La seconda ipotesi non è meno probabile: il papa sa quello che vuole e le contraddizioni che mostra non sono altro che quelle che un uomo d’azione, spinto dall’obiettivo che vuole raggiungere, trova sul suo cammino e non lo inquietano, spinto com’è dalla forza della sua ambizione.
A questo proposito si può supporre, soprattutto dopo il nuovo Ordo Missæ e la nuova messa, che l’intenzione di Paolo VI sia quella di riunire chierici e laici delle diverse confessioni cristiane in un’unica azione liturgica. Come ogni politico esperto, il papa sa che è possibile unire persone con “opinioni filosofiche e religiose” fondamentalmente diverse, come dicevamo alle riunioni della mia giovinezza. Se così sarà, potremo aspettarci nel prossimo futuro nuove manifestazioni dell’azione ecumenica pontificia, sul modello delle manovre politiche.
È vero che le due interpretazioni del comportamento di Paolo VI possono essere combinate. L’uomo debole fugge dalla sua debolezza o, più precisamente, da sé stesso, e si lancia nell’azione, dove le contraddizioni non sono altro che diverse fasi dei cambiamenti essenziali all’azione stessa. Tali temperamenti sono chiaramente focalizzati sul mondo e sulle metamorfosi che esso implica, che influenzano le proprie azioni. Si può allora accettare senza difficoltà un “catechismo nuovo”, inconciliabile con il catechismo di una volta, “perché c’è un mondo nuovo”, come dicono i vescovi francesi, e, nel linguaggio del mondo, “un mondo nuovo” non ha nulla in comune con il precedente, così come una nuova moda non ha nulla in comune con una vecchia moda. “Non è quindi più possibile”, aggiungono, “considerare i rituali come fissati in modo permanente in un mondo in rapida evoluzione”. Siamo stati avvertiti: la nuova messa è simile alla rivoluzione permanente che attira tutti gli adolescenti e gli adulti che non hanno ancora superato le crisi puberali, poiché maschera le contraddizioni che non possono superare, proprio perché queste contraddizioni ne sono parte integrante.
Marx diceva che la tragedia di Napoleone I si è ripetuta sotto Napoleone III come una commedia. Allo stesso modo, un certo vescovo belga, che mi sembra una sorta di mini-Paolo VI, incaricato di presentare la nuova messa al pubblico sconcertato, ha detto: “Questo segna il primo capitolo finale della riforma liturgica in corso dal Concilio Vaticano II”. Ci viene assicurato che ci sarà un secondo capitolo finale, poi un terzo, e così via all’infinito. L’uomo che cerca di sfuggire a sé stesso attraverso il cambiamento non ci riesce mai, nonostante i suoi sforzi a volte comici.
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Da questo punto di vista, è difficile trovare nella storia due papi che differiscano più radicalmente di san Pio X e Paolo VI.
Ho riletto recentemente l’enciclica Pascendi. In quasi ogni pagina ciò che il primo rifiuta il secondo lo accetta, lo tollera e lo sostiene.
San Pio fu un papa che seguì l’esempio dei suoi predecessori, che difesero la sana dottrina con estrema vigilanza e incrollabile fermezza, e fu impegnato a preservarla dal male, ricordandosi del comando dell’Apostolo: “Custodisci il buon deposito”.
San Pio X non avrebbe mai ammesso, come ha spesso lasciato intendere Paolo VI, che la verità si trova ugualmente nelle esperienze delle altre religioni, e che lo stesso Dio è comune a ebrei, musulmani e cristiani. Non avrebbe mai accordato onori ai maestri dell’errore, come Marie-Dominique Chenu e quelli del suo genere, per far sembrare che la sua ammirazione non sia diretta solo alle persone, anche se non prive di merito, ma a gli errori che apertamente professano e difendono.
L’ansia dei modernisti è trovare una via di conciliazione tra l’autorità della Chiesa e la libertà dei credenti, come fa costantemente Paolo VI.
Come ha osservato John H. Knox in un penetrante articolo sulla National Review (21 ottobre 1969), non c’è dubbio che “non c’è mai stato e probabilmente non ci sarà mai un papa che si sia sforzato così tanto di compiacere i liberali e che condivida così tanto sinceramente tante delle tue convinzioni”.
In ogni caso, è evidente che Paolo VI condivide l’obiettivo principale dei modernisti di rendere la Chiesa cattolica accettabile per le chiese non cattoliche e anche per tutti i regimi atei.
È un sogno, un’illusione la cui vanità ci è rivelata dal Vangelo stesso: la Chiesa, per quanto attraente cerchi di rendersi, non sarà mai amata dal mondo.
Come tutti i falsi spiriti, Paolo VI è inconsciamente crudele. Mentre il contemplativo è mite, l’uomo d’azione che, come Paolo VI, vede il fine della sua azione attraverso la lente del sogno, è spietato verso le povere anime in carne e ossa che non vedono o che, se lo vedono, considerano gli ostacoli. Ciò spiega il carattere inflessibile di Paolo VI, apparentemente in contraddizione con la sua incapacità di governare la Chiesa. Un uomo d’azione è quasi sempre disumano, ma quando si muove in un’atmosfera antica e spiritualmente trionfante, allora c’è da temere. Paolo VI avanzerà, senza voltarsi indietro, schiacciando ogni resistenza.
A meno che Dio non gli apra gli occhi… Sarebbe un miracolo…
Fonte: caminante-wanderer.blogspot.com