di Michela di Mieri
San Martino de Porres (Lima, 1579) è figlio naturale di don Juan de Porras de Miranda, un hidalgo dalla sfavillante carriera politica, e di Ana Vélasquez, un’ex schiava panamense di origine africana. Il piccolo nasce mulatto, fatto che segna il suo destino indelebilmente. Dodicenne, diventa assistente del dottor Marcelo de Ribera, un medico di Lima, dal quale apprenderà l’arte della medicina, che affinerà con le conoscenze fitoterapiche tramandategli dalla madre. Quando, a quindici anni, entrerà come fratello converso nel fiorente convento domenicano della Madonna del Rosario, nonché scuola di studi filosofici e teologici più importante del Perù, si darà con generosità e abnegazione ai lavori più umili. Oltre ad una perfetta umiltà, la cifra di quest’uomo di Dio fu un’universale carità, tanto da meritarsi i nomi popolari di “Santo con la scopa” e “Martino della carità”. Nell’infermeria che allestì per volontà dei suoi superiori in un locale contiguo al convento, venivano curati non solo i frati, ma anche i poveri, i neri, i mulatti e gli indigeni, ovvero tutte quelle fasce di popolazione per le quali non erano previste forme di assistenza. Frate Martino, mentre si occupava dei malanni del corpo, ne curava anche le anime, ammaestrandole alla vera Fede, essendo egli “dotato della Scienza dei santi”, ovvero la scienza infusa, come ebbe a dire di lui il direttore della scuola del convento. Ma la sua fama di taumaturgo evidentemente travalicò il genere umano, in quanto perfino gli animali iniziarono a recarsi nella sua infermeria, per essere curati e trovare un riparo.
Dato il numero di episodi che riguardano il suo singolarissimo rapporto con gli animali tramandatici dai testimoni, le favole vere sul primo santo mulatto dell’orbe cattolico verranno pubblicate in più puntate. Buona lettura!
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Episodio 1. Ovvero della fondazione della prima clinica veterinaria della storia
“Senti, Martino, fratello caro, io conosco bene l’immensa carità che ti contraddistingue, e so che essa si stende pietosa anche verso gli animali, specie quelli, miserrimi e sofferenti, che vagano nella nostra città. E tutto questo non è solo onorevole, ma anche santo e mai ti chiederei di limitarne la portata, ma ora mi trovo costretta a supplicarti di smettere di riempirmi la casa di tutte queste bestie. Sai quanti cani e gatti ci sono in giro per Lima, abbandonati, feriti, malati o morenti? Mica me li puoi portare tutti qui! Anche perché, onestamente, sporcano ovunque e il loro puzzo è davvero insopportabile. Quelli che stanno meglio, poi, tentano di fare delle sortite nel resto della casa, spaventando tutti quanti, e litigano tra di loro! Alle volte, si sentono delle zuffe che ci fanno sobbalzare. Insomma, io capisco la carità, ma tu cerca di capire me… non posso più andare avanti così.”
Frate Martino, a queste accorate parole della sua amata sorella, abbassò in silenzio lo sguardo, verso la palpitante pallina di pelo grigio misto a sangue che stringeva tra le mani, ennesima bestiolina ferita quasi a morte che il buon Dio gli aveva messo sulla strada.
Ricordava bene quando, qualche mese prima, si era presentato sul far della sera a casa della sorella, con in mano un gattino del tutto simile a quella pallina grigia, massacrato da delle sassate di alcuni balordi che avevano trovato in lui l’inerme destinatario del loro abbruttimento. Martino l’aveva raccolto e stava per portarlo nell’infermeria, quando si ricordò che il priore gli aveva tassativamente vietato di riempire il locale che serviva per curare i cristiani di animali raccattati per strada, con tutti i disagi ed i problemi che questo comportava: anche lui, come la sorella, capiva e apprezzava la sua carità, ma, che diamine, ci voleva pur qualcuno che mettesse un po’ d’ordine e di misura in tutta quella travalicante sensibilità foriera di inestricabile caos!
Insomma, Martino se ne stava lì con quella povera creaturina tra le mani senza saper bene cosa fare, chiedendo lumi al Cielo, perché proprio non poteva lasciarla morire agonizzante in mezzo alla strada.
E la luce arrivò: sua sorella!
Lui e Juana, entrambi figli naturali del nobile don Juan de Porras de Miranda, erano stati allevati quasi esclusivamente dalla madre: la sua incrollabile dolcezza, le difficoltà e le privazioni sopportate nell’infanzia, unite ad un’educazione profondamente religiosa, avevano forgiato in entrambi un animo buono e sensibile, attento e sollecito verso le sofferenze cui le creature tutte sono sottoposte. Insieme avrebbero trovato una soluzione, ne era certo, anche perché, a differenza sua, la sorella aveva i mezzi per potergli offrire un aiuto concreto. A guardarli, nessuno avrebbe mai detto che fossero fratelli germani, tanto erano diversi esteticamente. Lui aveva preso dalla madre, di origini africane, lei dal padre. Mulatto lui, dall’incarnato squisitamente europeo lei. E tanto era bastato perché le venissero aperte le porte della società: si era sposata con un ricco spagnolo e viveva nella di lui abitazione, un’elegante e signorile dimora ai margini della campagna, circondata dai campi di cereali e patate di cui era proprietario. Costui, un uomo dal cuore buono e profondamente innamorato della moglie, trovava incredibilmente difficile non accondiscendere ad un desiderio di lei. E, così, anche quella sera, quando Juana e il cognato, già conosciuto in tutta Lima come “Martino della carità”, lo pregarono della richiesta più assurda che le sue orecchie avessero mai sentito, pur alquanto perplesso, non ebbe il coraggio di rifiutare. “Va bene – disse- potete mettere questo gatto nel vecchio capanno per gli attrezzi dietro alla casa. Però, tu, Martino, ti devi prendere l’impegno di occupartene personalmente: nessuno, qui, ha le conoscenze per curare un animale”. E frate Martino, grato e solenne, promise, mentre nella sua testa si chiedeva in quale altro pasticcio si fosse andato ad infilare e come avrebbe potuto trovare il tempo e le risorse per onorare quell’ennesimo impegno.
Ora, poiché, com’è noto, la Provvidenza e la buona volontà sono un’accoppiata a cui nulla è impossibile, al buon frate non vennero mai meno né il primo, né le seconde.
Da quella sera, da un gattino che, nelle intenzioni di Martino, uno doveva rimanere, i gattini divennero due, poi tre e quattro e via numerando, a cui si aggiunsero uno, due, poi tre e quattro e via numerando cani di ogni taglia e colore; e, come uno se ne andava perché guarito, il suo posto veniva immediatamente occupato da un altro quadrupede malconcio.
Ogni sera Martino si recava dalle bestiole ricoverate e medicava ferite, cambiava bende, controllava fratture, ispezionava orecchie, occhi, tartufi, dava loro da mangiare, per poi fare ritorno al convento.
Ma, forse per l’attenta concentrazione con cui svolgeva i suoi compiti, forse per l’assuefazione ai miasmi prodotti dalla materia organica in mezzo ai quali trascorreva le sue giornate, non aveva mai valutato a dovere le condizioni igieniche in cui il capanno era ridotto.
Dunque, anche quella sera, non appena vi mise piede, fu subito accolto dal consueto festante coro di uggiolii e miagolii, in un roteare entusiasta di code e scuotimenti di teste.
Martino si fermò ad osservare con attenzione a quello che, a prima vista, poteva assomigliare ad un circo grottesco di giacigli improvvisati su cui stavano accucciati quadrupedi adornati dai più creativi bendaggi, intuitive protesi, multiformi ammaccature. E, sì, dovette convenire, la sua povera sorella aveva tutte le ragioni di lamentarsi; anzi, lei e suo marito erano stati fin troppo pazienti a sopportare tanto disagio fino a quel momento. La sporcizia regnava sovrana ovunque l’occhio si posasse, e il tanfo era così nauseabondo da rendere l’aria quasi irrespirabile. Persino i fiori che Juana riponeva quotidianamente e copiosamente nei vasi sui tavoli, come disperato tentativo di un rimedio, sembravano provati nei loro variopinti petali appassiti prima del tempo.
“Venite tutte qui vicino a me, creature di Dio, e ascoltatemi con attenzione”, disse Martino con fare risoluto. Lentamente gli animali si levarono e, chi caracollando, chi zoppicando o strisciando, si sedettero tutti attorno al frate e lo guardavano con occhi attenti e pronti. “Mia sorella si lamenta, e con ragione, di voi. Dice che non potete più stare qui, perché sporcate, litigate e scorrazzate per la casa, spaventando le persone che vi abitano; ma, se vi mando via, non saprò come curarvi e, dunque, molto probabilmente morirete. Perciò è necessario che adesso io stabilisca delle regole, alle quali voi dovrete attenervi scrupolosamente. Innanzitutto, bisogna che vi organizziate per fare i vostri bisogni fuori, nella campagna; poi, trovate il modo di andare d’accordo tra di voi, senza cercare di soverchiarvi l’un l’altro: siete tutti nelle stesse deboli condizioni e le liti non fanno che peggiorarle; infine, non dovete avvicinarvi al resto della casa né alle persone che vi abitano, se non sono queste a chiamarvi”.
Tacque e, nel silenzio tombale che si era fatto, lanciò un’occhiata collettiva verso tutti gli animali, i quali se ne stavano fermi immobili, con le lingue a penzoloni e lo sguardo quasi imbarazzato, come i bambini quando vengono colti in flagranza di pastrocchio. Quindi, guardò la sorella, evidentemente incredula e preoccupata, nonostante la dolcezza che le si leggeva in volto, suscitatale dell’ingenua purezza del fratello. Lui, allora, le sorrise e la rassicurò: avevano reagito esattamente come lui si aspettava, perciò nutriva buone speranze; in ogni modo, lei non doveva temere: se le cose non fossero migliorate entro il giorno successivo, l’avrebbe subito liberata da quell’incomodo.
Al calar del sole della sera seguente, Martino, confidente, ma con un umanissimo fondo di inquietudine, tornò al capanno, particolarmente carico di cibo, bende e medicamenti vari.
Juana, che ben conosceva l’animo del fratello, lo stava aspettando sulla soglia di casa già dai primi accenni di tramonto, smaniosa di dargli la bella notizia, così gli andò incontro non appena lo vide sbucare dal fondo della strada. “Martino, il Signore Dio davvero parla per mezzo della tua bocca! Se non fosse stata per la discreta processione di cani e gatti che uscivano uno alla volta verso la campagna, in casa nessuno si sarebbe accorto della loro presenza! La cuoca non ha dovuto cacciare nessun cane dalla cucina, né le cameriere si sono chiuse nelle camere spaventate da qualche intrusione, né abbiamo sobbalzato per via di improvvisi scoppi di furia tra loro! Vieni a vedere con i tuoi occhi”.
Come se un peso gli fosse stato sollevato da sopra la schiena, Martino si avviò leggero leggero verso il capanno e trovò tutto perfettamente in ordine: nessuna sporcizia sul pavimento, nessun segno di lotta, e persino i fiori, i cui petali avevano ripreso la vividezza dei loro colori, si erano riavuti.
Il buon frate scoppiò in un elogio dal profondo del cuore: “Bravissime, creature di Dio!”, a cui queste risposero con assalti claudicanti e gioiosi, mulinelli di code e fusa roboanti verso il loro benefattore.
Il cibo, quella sera, sembrava avere un sapore ancora più buono, e le ferite, le fratture o gli acciacchi di una vecchiaia randagia erano meno dolorosi, come se un fluido lenitivo e rinvigorente fosse colato nelle loro carni, mentre Martino ringraziava il buon Dio, che aveva illuminato le menti di quelle Sue inconsapevoli creature.
E fu così che la prima clinica veterinaria della storia poté restare aperta e le sempre troppe bestiole, ultime tra gli ultimi di un nuovo mondo in divenire, continuare ad avere un luogo in cui trovare un rifugio e conoscere quella pietà tutta umana ignota alla natura.