Quando Masaccio, con l’uso della prospettiva, mostrò il mistero della Trinità e della presenza reale di Cristo all’altare
di Elizabeth Lev*
I più grandi progressi nella storia dell’arte occidentale sono stati guidati dalla sfida più impegnativa: rappresentare il divino. I greci raggiunsero il vertice della loro arte rappresentando le divinità dell’Olimpo, gli egizi eressero enormi piramidi per esaltare i loro re-dei. Il cristianesimo nacque all’apice di questo immaginario divino, proprio quando Augusto conferì un tempio a Cesare, un dio fatto uomo. Il mecenatismo imperiale si serviva di immagini visive per persuadere il popolo della realtà di quegli dei che l’apologeta cristiano Tertulliano liquidava come “nullità… ignare degli onori loro tributati”.
Il Dio cristiano, il vero Dio, abitava il regno dell’invisibile, ma fece irruzione nell’esistenza umana e, grazie al potere dello Spirito Santo, assunse una natura umana, tangibile e visibile, diventando conoscibile come Gesù Cristo.
Che questo Dio fosse trino era un’idea tremendamente complessa da presentare a un mondo abituato all’idolatria. Perché i cristiani avrebbero dovuto anche solo tentare di confrontarsi con questo immaginario? Come poteva un essere umano rappresentare qualcosa di così grande come il Dio trinitario?
Tuttavia, fin dal momento in cui Cristo disse agli apostoli “Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” (Matteo 28:19), i cristiani si trovarono nella necessità di predicare il loro Dio in tre persone, e l’arte avrebbe dovuto seguirne l’esempio.
Gli artisti cristiani hanno raccolto la sfida, dalla prima immagine della Trinità sul cosiddetto sarcofago “dogmatico” del IV secolo, oggi nei Musei Vaticani, allo splendido trio di angeli di Rublev, ma la rappresentazione della Trinità come punto focale dello spazio liturgico in una pala d’altare ha richiesto del tempo. Il Battesimo di Cristo è servito come degna cornice per le immagini trinitarie accanto alle storie di Abramo e dei tre angeli, e diverse absidi romane presentavano la mano di Dio sopra un Cristo benedicente, a volte con una colomba sotto i suoi piedi, ma ci è voluta la rivoluzionaria visione umanistica del Rinascimento per arrivare alle le pale d’altare trinitarie.
Questa stagione artistica, che fiorì sulla scia dell’insegnamento e della predicazione degli Scolastici, produsse la pala d’altare trinitaria più iconica dell’arte occidentale: la Trinità. Dipinto nel 1426 da Tommaso di Ser Simone, noto come Masaccio, per la chiesa domenicana di Santa Maria Novella, l’affresco occupa un posto d’onore nella storia dell’arte come una delle prime immagini dipinte dopo la riscoperta della prospettiva lineare da parte di Filippo Brunelleschi. Contribuì alla sua fama anche la sua clamorosa riscoperta nel 1860, durante la rimozione dell’altare vasariano.
Quest’opera rappresenta più di un semplice progresso tecnico nella rappresentazione dello spazio pittorico: rivela la comprensione rinascimentale della Trinità e il suo ruolo come immagine di speranza durante quell’epoca turbolenta ma anche feconda.
La Trinità di Masaccio trae la sua iconografia da un’immagine medievale chiamata Trono di Grazia. Presente per lo più nei libri di preghiere, il Trono di Grazia rappresentava Dio Padre dietro il Cristo crocifisso, uniti dallo Spirito Santo sotto forma di colomba. La versione di Masaccio, di oltre sei metri per tre, prese quell’immagine, fino ad allora delle dimensioni di una pagina, e la fece torreggiare sull’osservatore come i mosaici dell’abside romana di un tempo. A confronto con uno spazio tridimensionale fittizio, l’osservatore guarda una volta a botte, con i cassettoni che sembrano ritirarsi ordinatamente in lontananza. Alcuni storici dell’arte ritengono che Brunelleschi, caro amico del pittore, abbia personalmente assistito Masaccio nella costruzione della struttura architettonica per l’affresco.
Diverse figure sono dipinte dentro e intorno alla cappella illusionistica; un uomo e una donna di profilo si inginocchiano fuori dall’ingresso ad arco: probabilmente ritratti postumi dei donatori. Maria, la Madre di Dio, e Giovanni evangelista stanno come sentinelle a guardia della soglia fittizia. Il Padre è posto nella parte più profonda della cappella, più lontano dall’osservatore mentre sorregge la croce del Figlio. Lo Spirito Santo, stranamente simile a una sciarpa, collega la testa di Cristo a quella del Padre.
Questo trono di gloria modificato ha posto la Trinità in un contesto molto più naturalistico rispetto alle nuvole o ai cori degli angeli. L’ineffabile e l’eterno sono diventati visibili in uno spazio creato dall’uomo: un nuovo approccio al pensiero della Trinità.
La prospettiva lineare è una tecnica pittorica che utilizza un punto di fuga per creare una griglia spaziale che imita il cono visivo. Ciò consente agli artisti di rappresentare distanze relative tra gli oggetti e di trasmettere all’osservatore un senso di vicinanza o lontananza. In questo caso, il punto di fuga attira suggestivamente l’occhio sotto i piedi di Cristo, fino ai piedi della croce.
Davanti alla cappella illusionistica, Masaccio dipinse un altare, che in origine avrebbe fatto parte di un vero altare fisico. E sotto la mensa dipinse uno scheletro sorprendentemente convincente, disteso come in una tomba aperta.
Si sa poco dei committenti, forse la famiglia Lenzi, ma l’affresco, che si trovava sopra l’altare di fronte alla porta del cimitero del convento, avrebbe esaltato la consapevolezza della mortalità dell’osservatore. Entrando in chiesa dopo aver visitato la tomba di una persona cara, il visitatore si sarebbe trovato improvvisamente di fronte a questo memento mori, inciso con le parole “Quello che sei, una volta ero io; quello che sono, sarai tu”.
L’esperienza della vulnerabilità di fronte alla morte porta lo spettatore ai piedi della croce, il punto di congiunzione tra il sacrificio di Cristo e la resurrezione, la sua vittoria sulla morte. La Trinità di Masaccio prometteva la salvezza, ma lo faceva senza nasconderne il costo.
Il Cristo senza vita si accascia in avanti sulla croce, il corpo cadente, i capelli sul viso, come se stesse per cadere sull’altare sottostante. Dio Padre è incassato, leggermente più distante da noi, ma è attivo, perché offre suo Figlio attraverso lo Spirito Santo.
Maria non è una ragazza graziosa, ma una madre toscana corpulenta, che guarda l’osservatore quasi accusandolo, mentre Giovanni guarda rapito verso l’alto. Cristo è veramente morto per i nostri peccati, e in questa meticolosa rappresentazione dello spazio materiale l’osservatore è invitato a riflettere sulla realtà del Verbo fatto carne.
L’uso dello spazio da parte di Masaccio esalta la bellezza della geometria, che impone ordine. La raffigurazione di uno spazio puro e senza ornamenti evoca l’ordine che Dio mantiene nonostante l’apparente caos del mondo e la casualità della morte. L’uso della prospettiva da parte di Masaccio invita l’osservatore a guardare oltre l’immediatezza del mondo, verso l’ordine divino.
All’architetto francese del XIV secolo Jean Mignot viene attribuita la frase “ars sine scientia nihil est“, ovvero “l’arte senza conoscenza non è nulla”. Quella “conoscenza” era la geometria. Una forma di conoscenza così importante che i manoscritti medievali raffiguravano Dio stesso come un geometra.
Il francescano Ruggero Bacone nel suo Opus Majus del 1267 propose la geometria come un’abilità essenziale per i pittori, scrivendo: “È impossibile conoscere il senso spirituale di un oggetto senza conoscere il suo senso letterale, ma il senso letterale non può essere conosciuto a meno che un uomo non conosca i significati dei termini e le proprietà delle cose significate… A maggior ragione quando sono in forme fisiche… quale infinito beneficio traboccherebbe se queste questioni relative alla geometria contenute nella Scrittura fossero poste davanti ai nostri occhi in forme fisiche”.
Secondo l’erudito frate, i soggetti più adatti alla pittura basata sulla geometria erano il tabernacolo di Dio con il suo altare e il “Trono della Misericordia”.
La potente miscela di arte e scienza elaborata da Masaccio ha permesso all’arte di adempiere alla sua triplice funzione delineata nel secondo concilio di Nicea: istruire i fedeli, ricordare i misteri dell’incarnazione e della redenzione, favorire la devozione. Questa missione tripartita dell’arte era, a sua volta, un riflesso della Trinità stessa.
Lo sviluppo della prospettiva ha anche permesso a Masaccio di suggerire una gerarchia di spazio: dall’osservatore al donatore ai partecipanti alla storia della salvezza alla Trinità stessa. L’osservatore, specialmente durante il sacrificio della Messa, vedeva il senso del suo posto nel grande mistero della Trinità.
Riscoperto nel 1860, l’affresco ha ricevuto nuova luce, soprattutto sulla sua natura incarnazionale , nel ventunesimo secolo. Il 21 giugno 2006 lo storico dell’arte William Wallace lo fotografò mentre la luce del sole entrava nel lato orientale della chiesa attraverso il rosone. E la luce, scendendo verso l’affresco, formò attorno alla Trinità un alone che sembrava sottolineare l’inizio del Vangelo di Giovanni: “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio. Tutte le cose vennero all’esistenza per mezzo di lui, e senza di lui nulla venne all’esistenza. Ciò che venne all’esistenza per mezzo di lui era vita, e questa vita era la luce del genere umano. La luce splende nelle tenebre, e le tenebre non l’hanno vinta”.
Wallace notò che questo effetto si verificò intorno alla festa del Corpus Domini, cara ai domenicani. In questa luce, la Trinità di Masaccio proclama la presenza reale di Cristo all’altare e, attraverso il corpo di Cristo, la presenza della Trinità, un mistero espresso attraverso l’ordine e la ragione della geometria che si impone sul disordine del mondo decaduto.
*storica dell’arte
Fonte: sacredarchitecture.org
Nell’immagine: Masaccio, La Trinità, 1427. Affresco, 6,67 x 3,17 m. Firenze, Basilica di Santa Maria Novella.