di Robert Lazu Kmita
Una delle conseguenze più drammatiche del peccato originale commesso da Adamo ed Eva nell’Eden è la cecità. Meditando su questa situazione che si verificò dopo la caduta, santa Ildegarda di Bingen parla della perdita degli “occhi spirituali”, che avvenne simultaneamente all’apertura dei nostri occhi fisici [1].
In altre parole, sebbene abbiamo conoscenza del mondo sensibile, materiale, fisico che ci circonda, non abbiamo conoscenza diretta del mondo spirituale. L’uomo è diventato incapace di vedere il mondo di Dio, la patria degli angeli e dei santi che vivono lì in eterno. Questa cecità è sempre stata alla radice del vizio più grave che possa affliggere l’uomo: l’incredulità. Perché è molto semplice negare ciò che non si vede mai durante questa vita terrena.
Conoscendo perfettamente questa grave mancanza frutto del primo peccato, Dio ha sempre cercato di lasciarci segni per ricordarci della sua esistenza e del Regno dei cieli. Nel primo capitolo della sua Epistola ai Romani, san Paolo apostolo parla del fatto che attraverso l’atto della riflessione intellettuale possiamo dedurre l’esistenza del Creatore dalle sue creature. Sulla base di questo insegnamento, i santi hanno spesso parlato di vestigia Dei, le tracce lasciate da Dio nella creazione. I saggi pagani, come Pitagora, Socrate e Platone, hanno meditato sistematicamente sul significato di certi elementi della creazione che provano l’esistenza di un intelletto divino che ha progettato tutto ciò che esiste. E tuttavia, nonostante queste tracce, non percepiamo ancora direttamente il mondo invisibile.
Il modo più elaborato in cui Dio ha affrontato questa deficienza della nostra natura decaduta può essere trovato nei testi sacri della Sacra Scrittura. Qui l’Autore e ispiratore dei profeti ed evangelisti ha racchiuso, come mostra magistralmente san Dionigi l’Areopagita nei suoi scritti, un vero linguaggio di simboli sacri. Questo linguaggio può essere trovato nella sua interezza all’interno dei contenuti della santa Liturgia. Attraverso di essa, il mondo invisibile ci viene reso noto, nonostante il fatto che, per ora, esperienze concrete di ascensioni estatiche in Cielo e conoscenza diretta della Gerusalemme celeste rimangano rare. Tuttavia, i simboli biblici e liturgici rendono accessibile a noi il mondo dello spirito. Non bisogna dimenticare di sottolineare che questa conoscenza implica necessariamente una vera iniziazione dei cristiani battezzati: la catechesi mistagogica (cioè catechesi sui significati mistici dei Sacramenti, della Bibbia e della Liturgia).
Contro gli insegnamenti erronei promossi dai rivoluzionari liturgici, dobbiamo sempre insistere sul fatto che nessun elemento della santa Liturgia è auto-esplicativo. L’idea di rendere intelligibile la liturgia della Chiesa da sola, semplificando o addirittura eliminando i simboli sacri, è allo stesso tempo assurda e distruttiva. Senza una formazione adeguata, nessun credente, che sia un semplice laico, sacerdote, vescovo o papa, può comprendere i misteri che è invitato a contemplare nelle sacre cerimonie. Purtroppo, se la catechesi fondamentale (il Credo, i Sacramenti, la Legge e la Preghiera) è stata quasi completamente abbandonata negli ultimi decenni, la catechesi mistagogica è stata e rimane praticamente inesistente [2]. Ecco perché abbiamo un urgente bisogno di colmare il vuoto lasciato dalla distruzione della catechesi tradizionale in generale, e in particolare della catechesi mistagogica-liturgica.
Per contribuire a colmare questa lacuna, non c’è argomento più adatto della meditazione sui simboli liturgici. Come breve riassunto, vi ricordo che la nozione greca di “simbolo” (che in sant’Agostino e nella tradizione latina del Catechismo Romano era equiparata a quella di “segno”) indica una cosa visibile che trasmette un contenuto invisibile, la grazia, avente significati legati all’ordine del Regno eterno di Dio. Quindi, attraverso questi segni/simboli visibili, il Creatore ci parla, in un linguaggio intelligibile, degli esseri e delle cose del mondo invisibile. Come un insegnante perfetto, adatta le cose del mondo fisico alla nostra comprensione carente. Così, una pietra, un albero (ad esempio il fico), un essere (ad esempio la colomba), pietre preziose, sono dotati nel contesto dei testi sacri o del tempio di significati simbolici di grande importanza. Tenendo presenti queste idee, avviciniamoci ora alla santa Liturgia.
La prima cosa di cui dobbiamo prendere coscienza è il fatto che nella liturgia assolutamente ogni dettaglio, ogni elemento è un simbolo. Come ho già accennato in un altro articolo, nella Chiesa di Cristo Salvatore tutto è un simbolo sacro: «L’architettura della chiesa, i gesti religiosi dei sacerdoti e dei fedeli, le parole delle preghiere, la musica sacra gregoriana o bizantina, i paramenti liturgici, e così via» [3]. Rispetto a questa moltitudine di aspetti del vasto universo simbolico della Chiesa, qui farò riferimento solo ai gesti sacri. Il motivo della scelta è legato a una delle deviazioni liturgiche e sacramentali più gravi che possiamo incontrare: l’autocomunione che avviene quando riceviamo il Santissimo Sacramento in mano.
Prima di vedere perché un tale cambiamento sia estremamente grave, fornirò un esempio che, lo spero, potrà aiutarci a capire quanto siano importanti i gesti. In una monografia intitolata La raison des gestes dans l’Occident médiéval (Il significato dei gesti nell’Occidente medievale) [4] il professor Jean-Claude Schmitt riassume una storia registrata negli annali della città di Reims da un monaco, Richer, dell’abbazia di Saint-Remi. Ciò che racconta si riferisce all’ascesa della dinastia Robertiana e di Ugo Capeto (c. 940–996), il primo re della casa dei Capetingi alla fine del X secolo. Mentre era ancora un duca, durante un incontro con l’imperatore Ottone II, quest’ultimo gli chiese di portargli la spada. Il duca Ugo si chinò per prenderla e porgerla educatamente al sovrano. Comprendendo il pericolo, il saggio vescovo che era presente prese per primo la spada e la porse al re. Se Ugo fosse riuscito a fare questo, avrebbe voluto dire che da quel momento sarebbe stato lui l’uomo dell’imperatore. Un semplice gesto, quindi, avrebbe significato agli occhi dei presenti il vassallaggio di Ottone II. Il vescovo, appartenendo alla Chiesa la cui giurisdizione era distinta da quella (laica) dell’impero, non correva alcun pericolo. Ma il duca sarebbe stato per sempre legato in un rapporto di subordinazione, che forse avrebbe persino impedito la sua ascesa al trono.
Per noi moderni queste cose non significano più nulla. Tuttavia, per le persone del Medioevo, le cui menti erano allenate a decifrare i significati spirituali nascosti in tutte le cose, un semplice gesto poteva avere implicazioni di vasta portata. E se questo era il caso in questioni di potere secolare, quanto più valido era per quanto riguardava il potere sacro dei riti della Chiesa!
La santa Liturgia è una summa di simboli religiosi. In tale contesto, ogni gesto del sacerdote porta con sé significati profondi, che derivano dal fatto che egli stesso è un simbolo vivente che agisce in persona Christi caput (nella persona di Cristo capo). In altre parole, il sacerdote è colui che rende veramente presente il Signore Cristo stesso. Una straordinaria testimonianza riguardo alla funzione sacerdotale mi è stata data da padre Cassian Folsom OSB, che quasi dieci anni fa mi ha spiegato una delle cose più significative che abbia mai sentito sull’esercizio della funzione sacerdotale.
In parole molto brevi e semplici, ciò che mi ha trasmesso può essere riassunto in una frase: nel contesto liturgico, la persona particolare del sacerdote (cioè, tutto ciò che gli conferisce un’identità soggettiva, le sue idee, opinioni, sentimenti) non esiste più. La spiegazione è la seguente: nel contesto delle cerimonie sacre, il sacerdote si conforma semplicemente e perfettamente a tutto ciò che deve compiere. Davanti al sacro altare, non fa nulla per evidenziare la propria creatività, opinioni o idee, perché deve compiere una serie di azioni e gesti, tutti precisamente codificati dalla millenaria Tradizione della Chiesa. Ripeto: nulla di ciò che il sacerdote deve fare nel contesto liturgico è una sua “invenzione”. Tutto è dato, già stabilito. In pratica, egli deve svuotare sé stesso in un atto di perfetta umiltà, lasciando che il Sommo Sacerdote (secondo l’ordine di Melchisedec), Gesù Cristo, compia attraverso la sua potenza divina, insieme allo Spirito Santo, il sacrificio eucaristico offerto a Dio Padre per il nostro perdono e il ripristino dell’armonia tra noi e l’Essere Supremo.
Nel contesto della sacra Tradizione, i gesti liturgici sono stati codificati con precisione, sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, dagli apostoli e dai santi della Chiesa. Non è un caso che le liturgie più note siano associate ad alcuni dei più grandi santi della Chiesa: Gregorio Magno, Giovanni Crisostomo, Basilio Magno, Pio V. Il fatto che un cardinale empio come Annibale Bugnini abbia osato “riformare” la sacra Liturgia con l’approvazione papale è uno degli eventi più dolorosi nella storia della Chiesa.
I laici non si auto-comunicano. Innanzitutto, secondo le sante regole perenni, non è loro consentito toccare oggetti sacri se non in situazioni straordinarie (ad esempio, se il sacro sacramento dell’altare è minacciato di profanazione in tempo di guerra, un laico può maneggiare il ciborio per nasconderlo ai profanatori). Tuttavia, come insegna san Tommaso d’Aquino, in circostanze normali i laici non dovrebbero mai toccare oggetti sacri. Il Dottore Angelico ci dice che solo coloro che hanno mani sante, i sacerdoti, possono farlo. Questa è una forte enfasi sulla gerarchia, la distinzione tra gli ordini sacri e i semplici laici nella Chiesa.
D’altra parte, l’aspetto più significativo è il simbolismo del gesto attraverso il quale un cristiano riceve la santa Eucaristia dalle mani del sacerdote: concretamente, è Cristo Salvatore stesso che nutre i fedeli, così come è Lui che si dona a noi. Questo gesto riassume in modo molto significativo l’intera dottrina della Chiesa, che ci dice che, per quanto riguarda la nostra salvezza, l’iniziativa e il suo compimento appartengono a Dio. Possiamo desiderare questa cosa preziosa, ma il suo compimento appartiene esclusivamente a Dio che, attraverso la sua grazia, ci aiuta a ottenerla. Anche se riconosciamo il valore delle nostre azioni meritorie (a differenza dei protestanti che lo negano), accettiamo simultaneamente che senza l’aiuto di Dio tali atti sono impossibili. Sia la chiamata alla fede sia l’offerta dei mezzi necessari per la salvezza delle nostre anime appartengono esclusivamente al Creatore. Come bambini, siamo nutriti da Lui per crescere e diventare adulti, ma questo si compirà veramente solo quando raggiungeremo la fine della strada, in Paradiso.
Molto spesso gli argomenti contro la ricezione della santa Eucaristia in mano e l’auto-comunione puntano ai sacrilegi commessi attraverso le piccole particelle che cadono durante tali abomini. Il vescovo Athanasius Schneider, tra gli altri, ha parlato chiaramente di questi sacrilegi. Sebbene perfettamente giustificata, una tale critica di una pratica inaccettabile deve sempre essere accompagnata da una catechesi mistagogica che spieghi il significato del gesto del sacerdote nel distribuire la santa Comunione. La scomparsa della cultura mistagogica e della comprensione che genera è alla radice della distruzione della santa Liturgia.
Naturalmente, i primi a doverne prendere coscienza sono i sacerdoti, educandoci con il loro esempio a realizzare l’ideale espresso da san Paolo apostolo: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20). Il sacerdote lo vive al massimo grado ogni volta che celebra la santa Liturgia. Se oggi, nella Chiesa-discoteca postconciliare, vediamo clown, ballerini di tango e showmen di ogni genere (oltre alle miriadi di fedeli che si servono come nei ristoranti self-service), è per il culto dedicato a quel ‘dio’ opportunamente chiamato dal professor Edward Feser «l’idolo dell’io». Se ha parlato dell’intronizzazione di questo idolo «al centro dell’ordine politico e sociale, usurpando il posto che spetta di diritto a Dio», temo che la stessa cosa si stia verificando anche nella Chiesa, che negli ultimi decenni è arrivata ad assomigliare sempre di più al mondo decaduto, diventandone una mera appendice e sempre meno un’icona del regno celeste di Dio.
Sancta Maria Mater Ecclesiae, Ora Pro Nobis!
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[1] Ho descritto un po’ questa situazione, includendo alcune citazioni significative, nel mio articolo L’uomo che perse la sua ombra: il corpo umano prima e dopo il peccato originale
[2] Ho già discusso della crisi della catechesi e della necessità della mistagogia in un articolo intitolato La sostituzione della messa cattolica romana tradizionale e la necessità della catechesi mistagogica.
Ecco uno dei commenti più significativi: «La catechesi mistagogica è gravemente carente in tutta la chiesa e, per quanto ne so, lo è da molto, molto tempo. Quando venni accolto nella Chiesa cattolica, nel 1972, non ricevetti quasi nulla. Fi quasi un pro forma, un sabato. La mattina dopo ricevetti la prima Comunione senza (e intendo dire senza!) alcuna guida spirituale o preparazione. Solo qualcosa da fare, e questo fu tutto. Qualunque spiritualità ci fosse nella vita cristiana cattolica, ho dovuto cercare di capirla da solo, leggendo. Non dovrebbe essere sorprendente che alla fine me ne sia andato».
[3] Simbolo. La nozione più importante della catechesi mistagogica.
[4] Jean-Claude Schmitt, La Raison des gestes dans l’Occident médiéval, Gallimard, 1990, Introduzione.
Fonte: theremnantnewspaper.com