Che fare ora che Roma ha perso la fede? Strategie di resistenza e rinascita
di Michela Di Mieri
Caro Aldo Maria,
ho ascoltato con vivo interesse la diretta di Triari TV del 24 settembre [qui], a cui hai partecipato, dal titolo Roma ha perso la Fede?
Il quesito ha il desolante sapore di una domanda retorica la cui risposta è affermativa. Ce lo dimostrano innegabilmente gli anni, che vanno ormai nell’ordine di parecchie decine, di esternazioni, dichiarazioni, atti, omissioni, silenzi e chi più ne ha più ne metta, da parte delle gerarchie della Chiesa cattolica, la cui deflagrazione ultima non è altro che l’epifenomeno di un lungo e sfiancante labor limae.
Oggi subiamo il coronamento del disegno ordito già all’indomani dell’Unità d’Italia, quando la massoneria, accortasi che la strategia vincente per devastare la civitas christiana non constava in un onesto combattimento frontale a suon di contrapposizioni, ha copiato la tecnica del cancro: da una cellula maligna, che si infiltra silenziosa e subdola nel corpo della Chiesa, al trionfo della metastasi, l’occupazione del soglio di Pietro. Cosa di cui, come ci hai ricordato durante la diretta, si era già accorto monsignor Lefebvre, quando levò il suo grido di allarme: “La Chiesa è occupata”.
La laboriosa decostruzione, modulata secondo molteplici ritmi, intensità e volumi, in base all’opportunità della contingenza, è stata necessaria, perché clero e laici potessero arrivare ad accettare il nuovo verbo (volutamente minuscolo) senza percepirlo come apostatico ed eretico. E anche di ciò abbiamo l’ennesima riprova nel tuo riportarci di come nelle parrocchie i bravi cattolici della porta accanto vivano sereni e contenti, perfettamente ignari della grande apostasia.
Roma ha perso la Fede. Ne prendiamo atto. E qui mi unisco alle tante voci che, a questo punto del ragionamento, si levano sollecite: che fare? Da che parte possiamo cominciare noi, laici, praticamente soli, senza il supporto e la guida dei pastori, a parte poche eccezioni, osteggiati fuori e dentro la Chiesa, divisi, sparpagliati per le varie zone dello stivale, senza mezzi, visibilità, agenzie culturali, grandi sponsor e pubblicità?
Credo che dovremmo partire esattamente da qui, da chi siamo.
Noi siamo gente che vede, sente, capisce che Roma è occupata e, dunque, che l’Occidente è agonizzante.
E quanti siamo? In percentuale, rispetto sia ai quei famosi cattolici della porta accanto, sia agli altri nostri consimili, incredibilmente pochi.
Chiediamoci, allora, come mai? O ci riteniamo più intelligenti e capaci, mettendoci così in un’ottica snobistica, elitaria, quasi fossimo detentori di un’arcana conoscenza, cosa che fa a pugni con la mens cristiana, o dobbiamo convenire che tale consapevolezza altro non è, in ultima analisi, che un dono. Avranno senz’altro un peso anche i meriti del nostro intelletto, dello sforzo degli studi, ma questi non sono altro che risposte, conseguenze di una causa che a noi è esterna, e che si chiama Grazia.
A mio modo di vedere, per rispondere degnamente a questa gratuita, terribile Grazia, di cui un giorno ci verrà chiesto conto, bisogna che noi iniziamo a percepirci come soldati, milites Christi che sono qui e ora, in questo Occidente morente e in questi nostri tempi di trionfo apparente della Rivoluzione, con il sublime e fondamentale compito di salvare, custodire e tramandare il seme di quella Fede e di quella Verità che per i nostri padri erano l’orizzonte all’interno del quale nascere, vivere e morire.
A lume di ragione, io non vedo davvero altra spiegazione plausibile del perché ad alcuni sia stata data questa capacità.
Dobbiamo, perciò, vivere le nostre quotidianità con la piena consapevolezza che siamo in una fase particolarmente cruenta dell’antica e sempre attuale guerra tra il luciferino non serviam e l’Arcangelo Michele, della cui milizia terrena siamo parte effettiva.
E, come in ogni guerra, i fronti sono due.
Il primo, interno. È prima di tutto necessario che ci adeguiamo alla Grazia di Dio rimanendo in essa, curando la nostra anima attraverso la preghiera, i sacramenti, la Messa di sempre, ove e quando possibile; vi è poi l’intelletto, che va esercitato e nutrito con buone letture, analisi, riflessioni.
Quindi, forti della nostra armatura e confidando nei doni dello Spirito Santo, dobbiamo affrontare il fronte esterno, là dove la contingenza, la specificità delle nostre singole vite e l’imponderabile ci portino quotidianamente, in famiglia, sul lavoro, con gli amici, nello sport, nelle incombenze giornaliere. Insomma, ovunque e in qualunque situazione ci ritroviamo, facciamo in modo di agire come quinte colonne disseminate sul territorio, sabotatori del nemico, guerriglieri alla macchia, spie in partibus infidelium.
Chiaramente, dobbiamo sempre tenere presente che viviamo in un mondo in cui la stragrande maggioranza dei nostri consimili ha perduto completamente la nozione di Bene e Male, del fatto che la realtà sia oggettiva e che la Verità sia assoluta e non relativa.
Questo è specialmente vero per le nuove generazioni, alle quali è stato completamente reciso il legame con le radici, il passato, l’origine.
Per chi, come la sottoscritta, è nato negli anni Settanta, per quanto la mutazione antropologica fosse già avvenuta, molto spesso c’erano ancora una mamma, una nonna, una zia (le donne sono state le ultime a perdere la Casa), a fungere da bastione vivente del mondo cristiano che fu.
Ma i nati dai Novanta in poi sono totalmente all’oscuro, ignari come se fossero piombati giù da Marte, tabule rase. Il loro orizzonte culturale ed esistenziale è completamente appiattito in una dimensione materialista ed edonista del qui e ora e si compendia, per i figli degli immigrati magrebini o delle classi popolari, che vagolano per le strade come branchi di animaletti in preda a ormoni e identità inesistenti, nella Trap o, per quelli nati in contesti più elevati, nella ricerca di una buona posizione economica, che li porti possibilmente in un paese anglofono.
E gli adulti? Qualche crepa di crisi è evidente. Non può non balzare agli occhi il nulla cosmico a somma zero nel quale si ritrovano con le prime rughe e le canizie, e i figli nel quale li hanno pasciuti ne sono l’impietoso specchio. Ma sono a loro volta troppo figli del nostro tempo per andare autonomamente alla radice dell’errore, per tornare a quella Fede della nonna, alla corona del Rosario e al santino nel cassettone della zia: dagli anni Sessanta in poi, il fuoco sotto la pentola è stato alzato e la rana è oramai cotta a puntino.
In questa temperie, noi, in sostanza, dovremmo smettere di avere quello che si chiama il rispetto umano, essere timidi e timorosi, quasi reticenti nel mostrare la nostra Fede, a prescindere da chi abbiamo davanti, che sia ateo, agnostico, musulmano, cattolico della porta accanto.
Non certo per pormi a modello di alcunché, ma soltanto con l’intenzione di fornire alcuni spunti di quello che intendo, riporto alcuni esempi tratti dalla mia quotidianità.
Passando davanti a una chiesa o a un’edicola, di cui le nostre città e paesi sono pieni, oppure prima di iniziare a mangiare, anche nei luoghi pubblici, mi faccio il segno della Croce. Alle bestemmie di tanti miei conoscenti o colleghi (capita di farsi male ad addestrare cani) puntualmente rispondo segnandomi e recitando, ad alta voce, in riparazione, una giaculatoria in latino (è la nostra lingua sacra). Il 31 ottobre gli sciami di bambini vestiti da strega o scheletro e relativi genitori trovano davanti alla mia porta un bel cartello tutto colorato con scritto “Buona festa di Ognissanti” e l’invito a prendere un santino nel cestino di fianco. Al parco con i miei cani incontro tante persone; chi ha un lutto, chi un caro malato, chi sta passando un momento particolarmente difficile. E io, tra le tante parole che intercorrono, assicuro che li ricorderò nel Rosario quotidiano, o suggerisco un santo a cui potersi rivolgere per quella specifica necessità. Sto facendo lezione di latino con uno studente di quinta: colgo l’occasione per far tradurre sant’Agostino o san Gerolamo; di storia, magari del Medioevo, e ne sfato qualche mito illuminista. E potrei continuare a lungo, ma credo di aver già reso l’idea.
Reazioni? Risultati? Si va dall’indifferenza, al ringraziamento di cortesia, all’ilarità, ma, succede, anche all’interesse. E quando questo accade, posso andare più in profondità, approcciare l’argomento in modo più organico, e arrivare a invitare alla Messa antica, a regalare qualche buon libro.
Le occasioni per gettare semini non mancano: la Provvidenza ce ne mette davanti continuamente e nelle forme più disparate. Noi possiamo semplicemente essere pronti a coglierle – ecco l’importanza di percepirci soldati – e a buttare là il gesto, la parola, il pensiero.
In una parola, l’idea è quella di tessere, ognuno nelle sue posizioni, modi e opportunità, fili invisibili che creino un humus, un costume condiviso, una cultura, minoritaria, indubbiamente, ma solida e capillare.
Come in ogni guerra, infine, è necessario che alle spalle dei soldati vi siano gli strateghi, i generali, un comando.
Chi mi conosce sa che, nella mia vita precedente, militavo tra le fila del movimento libertario e anarchico. Caratteristica peculiare di quel mondo era l’estrema divisione interna, la faziosità parossistica tra le varie sigle che lo componevano. Le motivazioni risiedevano in sottilissimi distinguo, rancori e sgarbi personali, autoreferenzialità supponente, manie di protagonismo di ego particolarmente ipertrofici. Con mia somma costernazione, devo ammettere, dopo un decennio di frequentazione, che ho ritrovato alcune di queste tendenze anche nel mondo della Tradizione cattolica. Certamente l’onestà intellettuale e il non scendere a compromessi con il male sono stelle comete; cerchiamo, però, di non perdere mai di vista che il nemico non è tra di noi, ma tutto intorno, e che, mentre disquisiamo sul sesso degli angeli, Maometto II è là fuori e sta cingendo d’assedio Costantinopoli. Nell’elaborazione di quelle idee, di cui tu, Aldo, nel tuo intervento, auspicavi la genesi, più si riescono a mettere da parte personalismi e fatuità, più sarà possibile la nascita di un coordinamento che si ponga come punto di riferimento, teoretico e pratico.
Quando san Benedetto istituì il monachesimo occidentale, ritirandosi dal mondo, senza dubbio non aveva idea che da lì sarebbe scaturita la futura civiltà medievale, che è grazie a lui se oggi possiamo leggere i classici latini ed abbiamo un’identità europea. Lui sapeva soltanto che doveva cercare Dio e, così facendo, ha salvato, protetto, tramandato il seme.
Non ho certo la presunzione di paragonare queste mie suggestioni all’opera del grande padre Benedetto, ma desidero soltanto sottolineare che la Storia è del Padrone di casa, di cui noi non riusciamo neppure lontanamente ad immaginare le evoluzioni.
Noi concentriamoci sul nostro dovere di buoni soldati, al resto penserà Lui.
Come diceva la mai abbastanza ricordata Pulzella d’Orléans, “a noi la battaglia, a Dio la gloria”.