Cronache dalla grotta / Pioggia, spirito e asinelli

di Rita Bettaglio

Plúviam voluntáriam segregábis, Deus, hereditáti tuæ: * et infirmáta est, tu vero perfecísti eam (Psal 67,10), “Pioggia abbondante riversavi, o Dio, rinvigorivi la tua eredità esausta” (Sal 68,10).

Quale migliore descrizione di questi giorni in cui la pioggia ci visita con frequente tenacia e tenace frequenza?

Piove. “Piove sui freschi pensieri che l’anima schiude novella”, diceva il poeta. Sempre lo stesso poeta, direte voi: ma non conosce altro che il D’Annunzio? Perdonatemi: lo so che fu un personaggio discusso, personalità complessissima e di ardua definizione. Ma quella sorta di guascone, fortissimamente italiano, ci sapeva davvero fare con la penna e bisogna dargliene atto.

La pioggia può significare refrigerio, fecondità o devastazione e morte. Ma anche purificazione, lavacro rigenerante del corpo e dello spirito.

Il corpo e lo spirito: così misteriosamente legati da essere impossibile toccare l’uno senza inevitabilmente raggiungere l’altro. Solo al momento della morte essi si separano e subito avvertiamo questo come un male.

Siamo, per volere del Creatore, un’unità di carne e spirito: ferita dal peccato d’origine per il quale fece ingresso nel mondo la morte, ma pur sempre attuale.

Ogni cellula del corpo, ogni palpito del cuore, ogni sospiro dell’anima contiene in sé, anche inconsapevolmente, uno sguardo levato al cielo, un anelito a tornare laddove era l’armonia primigenia alla presenza di Dio. Dove l’uomo era uno e non c’era guerra in lui tra il corpo e lo spirito.

Scusate, mi sono lasciata prendere la mano, cioè la penna… cioè la tastiera.

Qui nella grotta piove, ma non ci sono le tamerici salmastre né i pini o i mirti. Tutt’intorno monti a distesa, coperti di un verde follato e ricciuto come il panno casentino.

L’altra volta c’eravamo lasciati bruscamente per via dell’avvistamento di una modesta cavalcatura inerpicantesi per il clivo dove si trova la nostra grotta. Recava a cavalcioni un fagotto nero sormontato da bianca capigliatura. Avvicinatosi, il fagotto aveva assunto le fattezze bonarie d’un curato dal viso sorridente.

Lo guardo ed egli ricambia con una frase sulle prime misteriosa: “Io e lui siamo in due”.

“Due cosa, reverendo?”, domando mentre mi dò d’attorno per aiutarlo a smontare e accoglierlo nella grotta.

“Due asini”, risponde, come se fosse la cosa più semplice ed evidente del mondo.

Entra nell’anfratto, ma non fa molto caso a me, che nel frattempo l’ho riconosciuto. Ma… è don Orione.

Egli si guarda all’intorno e, trovata una roccia di suo gradimento, lascia la cavezza del ronzino e si siede.

“Siete stanco, reverendo? Gradite un poco d’acqua e qualcosa da mangiare?”. Mite accetta e devotamente si segna dinnanzi a quel poco che ho da offrirgli. Dev’essere stanco ma lui è di stoffa d’altri tempi e non lo direbbe mai.

Vengo assalita dal ricordo di mille episodi della sua vita, letti nei libri e di ognuno vorrei parlare. Ma soprattutto ho in cuore di chiedergli di mio padre, che lui conobbe bambino.

“Don Orione,” inizio, un po’ titubante, “vi ricordate di un bimbetto coi capelli rossi, a Tortona, tanti anni fa?”. Corruga un attimo la fronte e poi il suo viso si allarga in un bel sorriso: “O già, el rusei, il rossino. Certo che lo ricordo”. Vorrei che mi dicesse di più su quel bambino: il santo non è di molte parole ma il suo sorriso basta. Lo contemplo mentre mastica lentamente il pane, come se fosse immerso nell’eternità.

“Don Orione, ditemi qualcosa, qualcosa che io possa ricordare. Come bisogna vivere per piacere a Dio?”. Lui sta dando un pezzo di pane all’asino che lo ha portato fin quassù. Si gira, mi trafigge con quei suoi occhi acutissimi e, con la massima calma e serietà, risponde: “La mia vocazione – è un segreto che voglio rivelarti – sarebbe poter vivere come un autentico asino di Dio, come un autentico asino della Divina Provvidenza”. Le stesse parole che disse al fanciullo Ignazio Silone, che egli raccolse dalle macerie del terremoto della Marsica e accompagnò personalmente a Sanremo, in un lontano 1916.

“Bisogna fare da asino, respirare una boccata d’aria, una fontana d’acqua, un pezzo di pane, e basta”. Tutto qui per il santo di Pontecurone. Un’enormità per me.

 

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