di Vincenzo Rizza
Caro Aldo Maria,
l’arte sacra non se la passa molto bene, ma l’arte contemporanea non se la passa certo meglio.
È di questi giorni la notizia che il museo di arte contemporanea LAM a Lisse, in Olanda, ha rischiato di perdere un’“opera d’arte”. Si tratta di due lattine di birra, accuratamente schiacciate, realizzate dall’artista francese Alexander Lavet. L’“opera” si intitola All The Good Times We Spent Together ed era posizionata all’interno di un ascensore.
Pare, infatti, che un manutentore dell’ascensore, fortunatamente per lui non laureato in storia dell’arte e senza neppure un master in conservazione dei beni culturali, ma evidentemente dotato ancora di senso civico ma soprattutto di buon senso, vedendo le due lattine abbandonate abbia scelto per loro la sola collocazione possibile: il secchio dell’immondizia.
“Miracolosamente, entrambe le lattine sono state trovate intatte”, ha fatto sapere il museo, e tutti (o quasi) vissero felici e contenti.
Innanzitutto il museo, che ha goduto di copiosa pubblicità gratuita. Quindi Lavet, che potrà essere finalmente accomunato ad artisti del calibro di Joseph Beuys, la cui vasca incerottata è stata ripulita dagli addetti alle pulizie del Castello di Morsbroich a Leverkusen e poi usata come secchiello del ghiaccio per tenere in fresco delle bottiglie di birra (per restare in tema) e Marcel Duchamp, la cui porta esposta alla Biennale di Venezia è stata ridipinta da un imbianchino.
Per la verità qualcuno scontento c’è: innanzitutto il povero ascensorista, che sarà ricordato negli anni per la sua ignoranza in materia di arte contemporanea, facendo la figura della moglie di Alberto Sordi nel film ambientato alla Biennale di Venezia; in secondo luogo e soprattutto il buon senso, che da anni è ormai dimenticato.
È sempre di questi giorni la notizia dell’inaugurazione a Napoli di un’installazione alta dodici metri a piazza Municipio.
L’“opera d’arte” è dello scultore e designer Gaetano Pesce, scomparso qualche mese fa, e si intitola Tu si ‘na cosa grande. Dovrebbe rappresentare una rivisitazione dell’abito di Pulcinella. In realtà, la forma neppure troppo vagamente priapica del totem fa pensare a ben altro e per i sempre arguti napoletani è stato fin troppo facile ribattezzare il capolavoro sostituendo alla “r” di grande la “l”.
Ancora una volta tutti (o quasi) ne escono vincitori: la città di Napoli, che ha goduto di nuova visibilità; i napoletani, che si sono fatti quattro risate; l’artista, che è riuscito a far parlare di sé (“nel bene o nel male, purché se ne parli”, parafrasando Oscar Wilde).
L’unico a uscire sconfitto è verosimilmente il buon gusto, ma anche di quello oramai si sono perse da tempo le tracce.
È l’arte che cambia, purtroppo non in meglio. Oggi l’“artista” non guarda al bello ma essenzialmente alla provocazione che il critico o il gallerista amico riusciranno poi a valorizzare (innanzitutto economicamente); ieri l’Artista provocava, ma solo per la bellezza delle sue creazioni che lasciavano lo spettatore ammaliato.
Così mentre ieri non c’era bisogno di una laurea o di una specializzazione né di istruzioni per l’uso per ammirare la bellezza della Vergine delle rocce di Leonardo o della Vocazione di san Matteo di Caravaggio, oggi solo gli (auto)eletti che fanno parte del barnum autoreferenziale dei critici d’arte e presunti tali (e i collezionisti che passivamente investono su suggerimento dei primi) riescono ad apprezzare (sovente per puro interesse) la “bellezza” di molta arte contemporanea declamandone le lodi, con l’effetto che troppo spesso il valore di un’opera d’arte diventa inversamente proporzionale alla quantità di parole prive di senso necessarie per magnificarla.
E ci vogliono senz’altro tante parole per spiegare perché due lattine di birra schiacciate siano arte: secondo il museo, “per l’artista le lattine simboleggiano i ricordi cari condivisi con cari amici. Mentre le serate trascorse a sorseggiare drink possono sembrare banali, ma incarnano preziosi momenti di connessione”.
“Ricordi cari”, allora, soprattutto per i collezionisti che hanno avuto il privilegio di acquistare cotanta arte e “preziosi momenti di connessione” che corrispondono ad altrettanto preziosi e lauti guadagni che l’“artista” ha meritato con la sua faticosa ricerca concettuale.
Non meno parole sono necessarie a spiegare la natura artistica dell’installazione di Gaetano Pesce. Leggo dal sito artemagazine.it: “L’opera simboleggia l’amore che Pesce provava per Napoli e le sue radici nella regione, con un richiamo alla figura iconica di Pulcinella e un messaggio di affetto profondo per la città … La curatrice Silvana Annichiarico ha difeso l’opera, sottolineando come il lavoro di Pesce celebri la fluidità e la dualità tra maschile e femminile. Pulcinella, con il suo abito variopinto e privo di testa, rappresenta una figura ermafrodita, capace di incarnare le molteplici identità e storie della città di Napoli”.
Premesso che ho difficoltà a comprendere (ma è certamente un mio limite) come un simbolo priapico alto dodici metri possa celebrare “la fluidità e la dualità tra maschile e femminile” e “una figura ermafrodita”, reputo una fortuna che l’installazione simboleggi “l’amore che Pesce provava per Napoli” con “un messaggio di affetto profondo per la città”. Tremo al solo pensiero di ciò che l’artista avrebbe potuto realizzare se solo avesse avuto in odio la città di Napoli, anche se non escludo che l’opera sia stata in realtà pensata in un momento di scarsa lucidità, magari dopo aver svuotato il contenuto delle lattine di Lavet. Tra artisti ci si intende.