Caro Aurelio,
ammiro il tuo equilibrio e condivido il desiderio di non cadere in un certo protagonismo borioso, come se tutto dipendesse da noi e non fossimo soltanto servi inutili. Allo stesso tempo però penso che dobbiamo stare attenti: una cosa è l’equilibrio, una cosa è pretendere di salvare capra e cavoli.
Quando dico un certo protagonismo mi riferisco ovviamente a quello più deteriore, innescato e favorito dall’esplosione dei mezzi di comunicazione sociale.
Ritengo però che esista anche un protagonismo, per così dire, buono, che nasce dal desiderio di dare un contributo sincero alla tremenda crisi attuale, crisi che è sì della fede ma prima di tutto della ragione.
Ti sembrerà un’osservazione banale, ma penso che il protagonismo più deteriore, accompagnato spesso da aggressività e arroganza, nasca soprattutto dal fatto che le persone non si conoscono veramente. Comunicano a distanza, per lo più attraverso i social, ma non sanno nulla dei propri interlocutori.
Da tempo ho preso una posizione critica nei confronti dei pontificati di Benedetto XVI e Giovanni Paolo II. Ritengo – lo dico senza tanti giri di parole – che anche loro facciano parte del filone neo-modernista che sta distruggendo la Chiesa dall’interno. Certo, rispetto a un Francesco nel loro caso si deve parlare di un neo-modernismo temperato o moderato, ma il filone è quello. Tuttavia, pur avendo espresso critiche nei confronti di questi due pontificati, non penso di aver mai esagerato, e sai perché? Perché quei due papi li ho conosciuti, ho parlato con loro, li ho potuti guardare negli occhi. Dal che nasce un rispetto che impedisce di trascendere.
Tu dirai: mai hai conosciuto anche Francesco, eppure con lui sei duro. È vero. Ma la durezza nei confronti di Francesco penso sia soprattutto il frutto della delusione. Io inizialmente ho creduto in lui e nel suo pontificato. Con tutte le forze, e anche contro i primi segnali inquietanti, ho desiderato che potesse essere un vero Francesco, capace di riedificare la casa del Signore. E quando nel 2013, nei primi mesi del pontificato, lo incontrai a Santa Marta, trascorrendo con lui alcune ore, mi trovavo in quella sorta di luna di miele. Poi la realtà si è imposta ai miei occhi, procurandomi una forte disillusione che va al di là della figura di Bergoglio, perché questo pontificato ha determinato in me una sorta di fine dell’innocenza che ormai mi impedisce di guardare al successore di Pietro con la fiducia di un tempo. In ogni caso, anche quando ho espresso le critiche più radicali, mi sono sempre basato su fatti precisi e circostanze inequivocabili, sforzandomi di non cadere nel pregiudizio.
Un caso di confronto sincero e non pregiudiziale è senz’altro il nostro. Noi siamo diversi sotto moltissimi aspetti, e abbiamo anche idee diverse su non poche questioni. Ma ci siamo conosciuti, ci siamo frequentati, abbiamo scoperto di avere una sensibilità comune e abbiamo messo a disposizione l’uno dell’altro le nostre storie e le nostre convinzioni. Ed è così che sono nati anche i libri nei quali dialoghiamo, senza mai nasconderci ma con rispetto reciproco. Un grande dono, questo della nostra amicizia, specie perché arrivato quando entrambi eravamo un po’ alla deriva.
A Roma, la tua città, c’è un detto: la guerra è guerra. Significa che, in casi straordinari, non si può andare troppo per il sottile. E siccome obiettivamente nella Chiesa di oggi siamo in guerra, ecco che qualcuno ritiene che occorra mettere da parte il fioretto per impugnare il machete. Non lo so. Forse dipende dai caratteri. A me per esempio piace usare l’arma dell’ironia e del sarcasmo. Resta il fatto che in guerra siamo davvero e dobbiamo saperlo.
In un testo che ti inviai tempo fa (e che forse ricordi) ho fatto un elogio dell’ingenuità, intesa non come dabbenaggine ma nel senso etimologico della parola: ingenuo viene da ingenuus, ovvero nativo, naturale, per cui l’ingenuus era anche il nato libero. Ecco, penso che una ricetta a base di ingenuità, nel senso indicato, farebbe bene un po’ a noi tutti che combattiamo la nostra battaglia nella e per la Chiesa. Si tratta, in fondo, di essere sé stessi. Ben sapendo che non siamo noi a fare la giustizia, ma è sempre e solo il buon Dio.
continua
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