Martino Mora / Risposta al padre Farè
di Martino Mora
In un suo video, padre Giorgio Maria Farè ha tirato in causa il mio articolo, pubblicato su Duc in altum [qui] in cui affermavo essere insostenibile la sua posizione.
Dopo avere affermato, con una certa strafottenza, che a differenza mia lui è laureato in teologia (come se non fossero proprio le facoltà di teologia, da decenni, il focolaio di ogni eterodossia), il padre Farè afferma che io gli avrei attribuito in maniera non corretta, non avendo letto le sue glosse, posizioni che non gli appartengono.
Credo di compiere una sintesi onesta se riassumo le sue principali obiezioni.
- Non solo egli non sarebbe liberale, ha affermato, ma da sempre avrebbe combattuto il liberalismo.
- Non sarebbe nemmeno un sostenitore dell’ecumenismo, sul quale, dice, non si è mai espresso.
- Non sarebbe nemmeno un “modernista”, perché avrebbe denunciato l’”interpretazione modernista del “Concilio”. Quest’ultimo punto smentirebbe anche la mia affermazione secondo la quale la crisi della Chiesa per lui è iniziata nel 2013.
Personalmente prendo atto delle sue affermazioni. Ma esse, e soprattutto la prima, mi sembrano in chiara contraddizione con il suo sostegno incondizionato al Concilio Vaticano II e al magistero dei pontefici conciliari e postconciliari.
Se infatti egli ha sempre combattuto il liberalismo, come mai si riconosce nella Dignitatis humanae, la dichiarazione sulla libertà religiosa, che in contrapposizione con tutto il magistero precedente – non solo col Sillabo di Pio IX – introduce il liberalismo nella Chiesa?
Suvvia padre Faré, sia coerente, se Lei combatte il liberalismo, dentro e fuori la Chiesa, è venuto il momento di denunciare gli errori della dichiarazione conciliare Dignitatis humanae (1965). E magari anche la successiva disastrosa azione di Montini e Wojtyła per modificare in senso liberale gran parte dei concordati stipulati dalla Santa Sede in epoca pre-conciliare. Compreso quello italiano, modificato nel 1984. Non trova, padre Farè? O vogliamo parlare dei pellegrinaggi all’Onu dei papi conciliari e dei loro peana all’ideologia dei diritti dell’uomo? Quindi, padre Farè, lei e liberale o non liberale? Accetta o rifiuta Dignitatis humanae e tutto il seguito?
Per quanto riguarda l’ecumenismo, sul quale padre Farè afferma di non avere preso posizione, esso può essere inteso tanto in senso stretto, tra confessioni cristiane, quanto in senso più ampio come “dialogo interreligioso”.
Anche qui, cosa può dirci padre Faré della Unitatis redintegratio e della Nostra aetate del Concilio Vaticano II? E, più vicini a noi, dello scempio di Assisi 1986, lo scandalo che chiaramente precede l’idolatria di Pachamama 2019?
O delle affermazioni a Casablanca (1985) di Giovanni Palo II? Secondo il quale “cristiani e musulmani, abbiamo molte cose in comune… Noi crediamo nello stesso Dio, l’unico Dio, il Dio vivente, il Dio che crea i mondi e porta le sue creature alla loro perfezione”. Lo stesso Dio, quindi. Con tanti saluti alla Trinità e all’Incarnazione. Che ne dice, padre Farè?
Oppure vogliamo ricordare il folle incontro del papa polacco con gli stregoni vudù in Benin (1993), quando affermò di apprezzare, dei più anziani stregoni, “il senso del sacro, la fede in un Dio unico e buono, la consacrazione della vita morale e l’armonia della società”. Dei maghi neri vudù.
Di fronte a quello scempio della fede e della ragione insieme, che cosa poteva mai essere l’elogio a Lutero del papa polacco (1996)? Nel quale affermò che “occorre riconoscere più chiaramente l’alta importanza della richiesta di Lutero di una teologia vicina alle Sacre Scritture e della sua volontà di un rinnovamento spirituale della Chiesa”. Sempre meglio del vudù.
O cosa poteva essere la preghiera di Benedetto XVI nella moschea blu di Istanbul, rivolto al Mihrab, cioè verso la Mecca (2006)? O al Muro del Pianto (2009)?
Ma Lei, caro padre Faré, davvero crede che pontefici che hanno compiuto queste cose abbiano tradito meno la fede cattolica di chi vuole introdurvi, come Bergoglio, la liceità dell’amore libero o della sodomia? Crede forse come Kant che sia la morale a fondare la religione, e non la religione a fondare la morale? Cioè, tradotto in senso teologico, che il sesto comandamento sia più importante del primo?
Noi non siamo kantiani, ma cattolici. E non siamo nemmeno hegeliani, e questo ci introduce alla sua tesi sull’”interpretazione neo-modernista del Concilio”. Lei, padre Farè confonde, mi sembra di capire, il termine “modernista” con “progressista”. Perché ci sono anche modernisti conservatori, alla Ratzinger. O alla Müller. O alla Burke. Che per salvare il Concilio si sono inventati l’”ermeneutica della continuità”. Tesi che a naso mi sembra anche la sua, ma mi corregga se sbaglio.
Peccato che lo stesso Benedetto XVI avesse anche affermato che il Concilio (del quale era stato protagonista come perito del cardinale Frings di Colonia) aveva scritto il Contro-Sillabo. Ma se il beato Pio IX scrisse il Sillabo nel 1864, e il Concilio cent’anni dopo scrisse il Contro-Sillabo, quale continuità vi potrebbe essere? Nessuna, ovviamente.
Che l’”ermeneutica della continuità” si basi sul principio dell’unità dei contrari, concetto caro a occultisti ed esoteristi di ogni risma, o sul movimento triadico della dialettica hegeliana (tesi-antitesi-sintesi), noi, caro padre Farè, siamo fieramente cattolici e tomisti. Crediamo saldamente nel principio di non contraddizione. Il Contro-Sillabo del Concilio Vaticano II (Ratzinger docet) non può essere compatibile con ciò che ha rifiutato: il Sillabo. C’è totale opposizione e nessuna continuità.
Quindi, padre Farè, vogliamo riconoscere che i papi conciliari erano modernisti e che gli errori del Concilio Vaticano II sono le profonde radici di quell’albero di cui Bergoglio è stato finora il frutto più marcio?
O invece vuole continuare a fare il vaticansecondista incallito e il papolatra di ferro come i suoi nuovi sodali Cionci e Minutella?