Perché non è tempo di equidistanza

di Fabio Battiston

Già da diverse settimane i lettori di Duc in altum trovano, nella forma dell’“epistolario aperto”, un interessantissimo scambio di pensieri e analisi tra Aldo Maria Valli e Aurelio Porfiri. Il tema, ovviamente, è quello riguardante la crisi nella (o della) Chiesa e le diverse posizioni che alimentano un dibattito generale che parte da molto da lontano. Dico diverse posizioni perché, è qui sono d’accordo con Porfiri, non si può semplicisticamente parlare di una partita a due tra innovatori e tradizionalisti, quanto piuttosto di svariate articolazioni di pensiero, opinioni e visioni che convivono all’interno stesso degli schieramenti. Così come in politica – e mi scuso per la semplificazione – anche nel mondo cattolico (laico e ordinato) abbiamo non solo una destra contro una sinistra ma anche un centro, una destra e una sinistra che, direi soprattutto nell’ambito conservatore, stanno emergendo in maniera assai eclatante. Un esempio? Le diverse e talora opposte reazioni legate alla vicenda di monsignor Viganò. Nelle sue missive Porfiri cerca di superare tali dicotomie ponendosi in una posizione di costante ricerca di un equilibrio. Un “centro” che possa operare in pensieri, parole e opere nell’interesse esclusivo della Chiesa – cattolica, apostolica, romana – unica depositaria terrena della Verità. La sua speranza è che con tale atteggiamento si possa giungere a una sintesi capace di coniugare, conciliare e infine unificare le tante anime che oggi si affrontano e si combattono.

Rispetto a quest’idea di fondo si sta sviluppando il dibattito, direi acceso e pacato al tempo stesso, nel quale le posizioni di Valli mi pare riassumano con grande efficacia tutte quelle istanze tradizionali meno inclini al compromesso, alla comprensione e alla ricerca di ciò che unisce il mondo cattolico (ormai ben poco a mio avviso). Una posizione che intende coraggiosamente schierarsi nella difesa di un “sistema di valori”, purtroppo non sempre e non più condiviso nella Chiesa. Quello che invece Porfiri sollecita, non solo a Valli ma anche a ciascuno di noi che viviamo questo momento così critico, è un atteggiamento diverso (più aperto?) nei confronti sia del “nuovo” scenario ecclesiale sia dei protagonisti che lo ispirano e lo guidano; stiamo parlando di un clero e un laicato che sembrano invece totalmente orientati a stravolgere duemila anni di tradizione, dottrina e storia. Il problema, come si può ben capire, è molto importante e a mio parere difficilmente risolvibile.

Finora non ho inteso intromettermi in alcun modo nel dibattito; tuttavia, se Valli lo riterrà opportuno, vorrei condividere con i due protagonisti e con i lettori del blog alcune spero non noiose considerazioni. Per mia abitudine (vizio o virtù, fate voi) non ho mai avuto la volontà di dare una botta al cerchio e una alla botte; sarà così anche in questo caso. Niente zero a zero.

La prima questione riguarda una frase che compare nella missiva di Porfiri pubblicata il 2 ottobre scorso (qui). A proposito della cosiddetta “Profezia di Ratzinger del 1969”, egli riporta in primo luogo le parole del compianto papa: “Il futuro della Chiesa può risiedere e risiederà in coloro le cui radici sono profonde e che vivono nella pienezza pura della loro fede. Non risiederà in coloro che non fanno altro che adattarsi al momento presente o in quelli che si limitano a criticare gli altri e assumono di essere metri di giudizio infallibili, né in coloro che prendono la strada più semplice, che eludono la passione della fede, dichiarandola falsa e obsoleta, tirannica e legalistica, tutto ciò che esige qualcosa dagli uomini, li ferisce e li obbliga a sacrificarsi. Per dirla in modo più positivo: il futuro della Chiesa, ancora una volta come sempre, verrà rimodellato dai santi, ovvero dagli uomini le cui menti sono più profonde degli slogan del giorno, che vedono più di quello che vedono gli altri, perché la loro vita abbraccia una realtà più ampia”.

Su queste riflessioni, commenta poi Porfiri: “Come vedi, l’allora professore tedesco fustigava certi progressisti (‘coloro che non fanno altro che adattarsi al momento presente’) ma anche certi tradizionalisti (‘quelli che si limitano a criticare gli altri e assumono di essere metri di giudizio infallibili’).

In quasi tutte le lettere sinora inviate a Valli, Porfiri ha più volte ribadito questo suo concetto di equidistanza tra le due posizioni che si affrontano nel dibattito sullo stato della Chiesa. Al tempo stesso ha costantemente sostenuto la sua idea di considerare il tradizionalismo – non tutto, certo, ma una sua parte considerevole – come una forma di fastidioso e condannabile atteggiamento di superiorità, in cui prevale il sentirsi giudici/accusatori, portatori di una verità incontestabile.

Mi permetto di dissentire da questa impostazione. In primo luogo mi sembra che non si tenga in alcun conto un elemento oggettivo: il cosiddetto tradizionalismo è una forma di reazione – ma sarebbe meglio definirla contro-rivoluzione – che si è innestata in questi decenni in risposta a una serie sempre più impetuosa di cambiamenti e stravolgimenti che hanno squassato come uno tsunami la vita della Chiesa in ogni sua componente. Non saremmo certo di fronte a questo fenomeno di rigetto se non ci trovassimo a dover contrastare, da tempo, un attacco senza precedenti al Dio trinitario che si è sviluppato nel seno stesso della Chiesa temporale. E poi non credo che oggi chi si sente lontano da questa chiesa sia pervicacemente contrario a qualsiasi forma di cambiamento che, è storia plurisecolare, ha sempre contraddistinto il percorso della barca di Pietro in questi duemila anni. Ma ciò che sta accadendo da quasi settant’anni a questa parte – lo dico pur non essendo uno storico della Chiesa e del cattolicesimo – mi pare non abbia significativi precedenti. Stiamo assistendo a una incredibile e incomprensibile (?) virata a 180°, sia sul piano quantitativo che qualitativo, in tutto ciò che riguarda dottrina, magistero, pastorale, peccato, liturgia e governance.

Inoltre voglio respingere l’accusa che si fa spesso ai tradizionali (perché, pur con parole potabili, il concetto che viene fuori è questo) di essere degli ipocriti e dei sepolcri imbiancati che si sono impossessati del ruolo di implacabili giudici del prossimo senza averne alcun diritto. Il fatto che siamo tutti peccatori (chi scrive è il primo della lista), e che quindi non possiamo scagliare alcuna pietra contro chicchessia, non può significare acquiescenza e impossibilità di reagire con i mezzi che ciascuno di noi è in grado di utilizzare al meglio (ci si difende come si può, anche in base ai talenti che il buon Dio ha dato a ciascuno di noi). La trave che è da sempre nei miei occhi è un peso che mi porterò dietro tutta la vita e Dio solo sa quant’è difficile toglierla via; ma perché devo pagare questa mia tragedia col silenzio e con la rassegnazione?

La seconda, breve considerazione che intendo proporre è riferita alla lettera di Porfiri pubblicata il 17 ottobre su Duc in altum (qui). Sarà l’impressione di un quasi settantenne che ha vissuto gli anni giovanili nel pieno delle stagioni terroristiche e della cosiddetta strategia della tensione ma – leggendo la nota – mi è sembrato di risentire i toni di coloro che parlavano di “opposti estremismi” o che si dibattevano in un pervicace equilibrismo in cui doveva prevalere il concetto della “equidistanza”, un approccio che non teneva conto delle oggettive differenze tra due fenomeni in contrapposizione. Il tutto per non arrivare mai a prendere una posizione decisa e chiara. Non posso negare di sentirmi lontano dal modo con il quale Porfiri sta proponendo di affrontare questa grave crisi. Proprio perché il dramma che stiamo vivendo non è solo figlio della tragedia iniziata nel 2013 ma affonda le sue radici a quasi settant’anni fa, non vedo proprio che cosa ci sia ancora da capire o “comprendere” nelle posizioni, scelte e decisioni di chi, dall’interno, sta facendo a pezzi la Chiesa, la dottrina e la fede nel Dio trinitario.

Cos’altro mai dovrà ancora dire, scrivere e pensare la gran parte del mondo cattolico di inizio terzo millennio – stampella del Deep State e artefice della Nuova Chiesa Universale – prima di essere considerato il vero, grande nemico della cristianità? Nell’ultima sciagurata trasferta in terra d’Oriente il signor Bergoglio, con le sincretistiche dichiarazioni fatte a Singapore, ha preso letteralmente a calci il primo Comandamento. Lo ha fatto, davanti al mondo intero, senza minacce e costrizioni; egli crede veramente in ciò che ha detto! Non penso si possa fare o dire di peggio. O forse, poiché siamo tutti peccatori, non abbiamo il diritto di dire nulla in proposito? Obedientia sine mora? No, grazie.

Tanti anni fa la sinistra politica italiana coltivava e proteggeva nel suo seno i cosiddetti “compagni che sbagliano”. Erano questi gli artefici, complici, fiancheggiatori e finanziatori, nonché ispiratori culturali di ciò che divenne per anni il mostro terroristico rosso. Rappresentavano certo una minoranza (non banale) del mondo progressista. Oggi, nella Chiesa, non siamo di fronte a sparuti gruppi laicali, più o meno organizzati, desiderosi di ripercorrere i fasti di ciò che furono i “cattolici di base”; non siamo nemmeno alle prese con sparuti manipoli di sacerdoti à la page, entusiasticamente accettati dal mondo secolare. Quella che si presenta è invece una strabordante maggioranza (per di più pretenziosa, vociante e potentemente supportata a livello massmediale) che vuole imporci una nuova religione. Non commettiamo anche noi l’errore di chiamarli “cattolici che sbagliano”; affrontiamoli invece per ciò che realmente rappresentano e per gli obiettivi che vogliono conseguire. L’eventuale vittoria del modernismo cattolico nella Chiesa sancirebbe il nostro definitivo annientamento. Non diamo loro una mano offrendo la nostra comprensione e volontà di dialogo. Siamo già considerati, nella barca terrena di Pietro, minoranza reietta e divisiva; siamo bollati come indietristi e trattati come tali. Basta ancora poco, molto poco, per sparire. Ricordiamolo sempre.

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