Auto elettriche? Contrordine compagni!
di Vincenzo Rizza
Caro Aldo Maria,
rubo ancora una volta dall’indimenticato Giovannino Guareschi, sperando che dal cielo mi guardi con benevolenza per la mia goffa parodia, l’espressione da lui spesso usata per prendere in giro i comunisti inclini all’obbedienza cieca, pronta e assoluta.
Contrordine compagni: la frase pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea “occorre diminuire la produzione dell’anidride carbonica” contiene un errore di stampa e pertanto va letta “occorre favorire la produzione dell’automotive teutonica”.
I compagni trinariciuti, infatti, già pronti, chiave inglese e martello alla mano, a demolire quel che resta del settore automobilistico europeo (uno dei pochi all’avanguardia, che faticosamente prova a resistere all’avanzata delle tigri asiatiche) e a impedire la produzione di motori endotermici a favore dei motori elettrici, forse dovranno fermarsi.
Grandi capitani d’industria e manager strapagati della filiera autonobilistica europea si stanno, infatti, finalmente accorgendo di ciò che la casalinga di Voghera aveva già capito da anni:
- le macchine elettriche non si vendono e restano ammassate nei piazzali delle fabbriche;
- i soli che possono eventualmente approfittare dell’elettrico sono i cinesi, sostanziali monopolisti della produzione di batterie e in grado di convertire velocemente le proprie fabbriche non essendo limitati dai lacci e lacciuoli che legano le mani all’industria europea e potendo pagare una miseria i propri dipendenti.
Bene il ravvedimento (sperando che sia definitivo); male la tempistica da parte di coloro che, chiaramente escluse motivazioni etiche e la condivisione degli ideali ambientali e gretini, evidentemente pensavano di approfittare dell’ingenuità (nella migliore delle ipotesi) del legislatore del vecchio continente e di costringere per legge l’intera popolazione europea a cambiare in poco tempo il parco auto circolante.
Non hanno, tuttavia, fatto i conti da un lato con la richiamata competitività dei cinesi (basta vedere il listino auto di Quattroruote per scorgere come dal nulla siano spuntati numerosi nuovi produttori dai nomi impronunciabili, tutti rigorosamente con gli occhi a mandorla) e dall’altro con la tecnologia che ha i suoi tempi e non può essere sviluppata per legge. Così, in mancanza di infrastrutture (innanzitutto di ricarica) adeguate (che non si costruiscono con la bacchetta magica) e in ragione della scarsa attuale autonomia delle auto elettriche e del loro costo elevato (nonostante gli incentivi statali), lo sviluppo del settore è assai limitato e al più relegato all’uso cittadino.
D’altro canto non ci vuole (e non ci voleva) certo un genio per capire che avventurarsi in un viaggio che superi i 250 chilometri con un’auto elettrica, rischiando di non arrivare o comunque di non riuscire a tornare indietro, è impresa che pochi sono disponibili ad affrontare; non certo la casalinga di Voghera. Un viaggio da Roma alla Sicilia sarebbe possibile solo con fermate di ore (sempre che si riesca a trovare una stazione di ricarica), salvo non voler utilizzare una prolunga di ottocento chilometri, sperando che nessuno stacchi la spina durante il viaggio.
L’inaspettata resistenza dei consumatori ai diktat comunitari (anche perché qualche persona di buon senso è ancora rimasta ma soprattutto quando si toccano il portafoglio e le abitudini dei cittadini non sempre l’indottrinamento di massa funziona) ha sorpreso, allora, le case automobilistiche europee. In particolare quelle più importanti, le tedesche, hanno annunciato licenziamenti; quelle italiane (anche se di italiano è rimasto ben poco) chiedono come sempre nuovi sussidi, bonus e prebende (naturalmente a carico dei contribuenti); tutti chiedono l’imposizione di dazi all’importazione che rischiano di complicare il già difficile scenario internazionale (l’economista Bastiat, vissuto nell’Ottocento, soleva dire che “dove non passano le merci passano gli eserciti”).
Ancora una volta sono chiaramente visibili gli effetti di una politica miope, che decide di entrare a gamba tesa sul mercato, influenzando e forzando le scelte di produttori e consumatori senza considerare i disastrosi effetti (intenzionali e non intenzionali) dei suoi provvedimenti.