Il papa e quello spettro che ancora si aggira per l’Europa
di Vincenzo Rizza
Caro Aldo Maria,
il Santo Padre qualche giorno fa, all’assemblea sulle disuguaglianze tenuta nella basilica di San Giovanni in Laterano, ha dichiarato: “Per favore, il povero non può essere un numero, non può essere un problema o peggio ancora uno scarto. Egli è nostro fratello, è carne della nostra carne… E per favore, non diciamo che i preti, le suore che lavorano con i poveri sono dei comunisti! Per favore, questo si dice ancora” [qui].
Francamente non so chi possa pensare e dire che chi si occupa dei poveri sia un comunista. Anche se, a ben vedere, se c’è chi crede che la terra sia piatta può esserci qualcuno che può seriamente credere che chi aiuti i poveri sia un comunista e soprattutto che il comunismo abbia mai aiutato i poveri.
La recente affermazione del papa, tuttavia, sembra non tanto la difesa di preti e suore che lavorano con i poveri quanto un’autodifesa (con relativa assoluzione, che non si nega a nessuno) rispetto a chi lo ha accusato di essere comunista. Già un anno fa, infatti, in una intervista all’agenzia di stampa Telam aveva affermato che “a volte quando mi sento dire le cose che ho scritto nelle encicliche sociali, dicono che il Papa è comunista. Non è così. Il Papa prende il Vangelo e dice quello che dice il Vangelo” [qui].
In realtà non so se il papa possa essere definito comunista, socialista, marxista o peronista; è un dato di fatto, tuttavia, che nelle sue encicliche sociali, dichiarazioni e interviste abbia permanentemente perorato un modello economico di stampo essenzialmente statalista, ribaltando quanto la Chiesa ha in passato insegnato in materia di dottrina sociale. Non è certo un caso, infatti, che l’epiteto “comunista” sia stato da molti affibbiato a lui e non ai suoi predecessori che non mi sembra avessero meno attenzione per i poveri.
La corretta domanda, in effetti, non è se i poveri debbano essere aiutati, ma come. Le ricette fornite dal nuovo magistero, intrise dell’esperienza (invero fallimentare) sudamericana, che vedono la continua ingerenza dello Stato-Leviatano in vicende private, non appaiono infatti idonee ad aiutare i poveri ma sembrano più rivolte a mantenerli nella permanente povertà.
Papa Francesco in Fratelli tutti, citando anche Giovanni Paolo II, ha affermato che “il diritto alla proprietà privata si può considerare solo come un diritto naturale secondario e derivato dal principio della destinazione universale dei beni creati, e ciò ha conseguenze molto concrete, che devono riflettersi sul funzionamento della società”. In realtà tale visione del diritto di proprietà come “diritto naturale secondario” non sembra attribuibile a Giovanni Paolo II che nella Centesimus annus celebra la Rerum novarum di Leone XIII. Quest’ultima definisce la proprietà come “diritto di natura” e – richiamando san Tommaso (che riteneva “lecito, anzi necessario all’umana vita che l’uomo abbia la proprietà dei beni”) – “sancita dalle leggi umane e divine”. Così il “principalissimo” compito dei governi è “per mezzo di sagge leggi assicurare la proprietà privata”.
Non solo. La Rerum novarum definisce il socialismo “falso rimedio” e via che “non fa che danneggiare gli stessi operai ed… ingiusta per molti motivi, giacché manomette i diritti dei legittimi proprietari, altera le competenze degli uffici dello Stato, e scompiglia tutto l’ordine sociale”.
Naturalmente Leone XIII non dimentica i doveri dei capitalisti, ma soprattutto ricorda che le ricchezze non liberano dal dolore e che “i ricchi debbono tremare pensando alle minacce straordinariamente severe di Gesù Cristo… che dell’uso dei loro beni avranno un giorno da rendere rigorosissimo conto a Dio giudice”. Un conto, allora, è il diritto (naturale) di possedere beni, un conto è l’uso che di quei beni ciascuno di noi fa; anche perché proprio di quell’uso un giorno dovremo rispondere a Dio. Né lo Stato può sostituirsi all’individuo nell’esercizio della carità il “cui adempimento non si può certamente esigere per via giuridica” perché “sopra le leggi e i giudizi degli uomini sta la legge e il giudizio di Cristo, il quale inculca in molti modi la pratica del dono generoso e insegna: è più bello dare che ricevere (At 20,35), e terrà per fatta o negata a sé la carità fatta o negata ai bisognosi: Quanto faceste ad uno dei minimi di questi miei fratelli, a me lo faceste (Mt 25,40). In conclusione, chiunque ha ricevuto dalla munificenza di Dio copia maggiore di beni, sia esteriori e corporali sia spirituali, a questo fine li ha ricevuti, di servirsene al perfezionamento proprio, e nel medesimo tempo come ministro della divina provvidenza a vantaggio altrui: chi ha dunque ingegno, badi di non tacere; chi ha abbondanza di roba, si guardi dall’essere troppo duro di mano nell’esercizio della misericordia; chi ha un’arte per vivere, ne partecipi al prossimo l’uso e l’utilità (S. Greg. M., In Evang. hom 9, n. 7)”.
D’altro canto, che merito avrebbe l’individuo se costretto per legge a fare la carità? Se il buon samaritano non avesse scelto liberamente di aiutare, con i propri mezzi, il viandante rapinato, ma fosse stato forzato a farlo dallo Stato o lo avesse fatto con il denaro estorto al sacerdote o al levita, sarebbe così degno di lode?
Ancora più evidente il distacco dalla tradizionale dottrina sociale il riferimento, sempre in Fratelli tutti, al principio di sussidiarietà, totalmente travisato. Al punto 175, si parla delle aggregazioni e organizzazioni della società civile che aiutano a compensare le debolezze della comunità internazionale e si afferma: “Così acquista un’espressione concreta il principio di sussidiarietà, che garantisce la partecipazione e l’azione delle comunità e organizzazioni di livello minore, e quali integrano in modo complementare l’azione dello Stato”. In realtà questo è il ribaltamento del principio di sussidiarietà: non è ciò che non può essere soddisfatto dall’alto (cioè dal nuovo Leviatano rappresentato dalle Nazioni Unite) che va integrato dalle comunità di livello minore; è invece rimessa proprio alle comunità di base, innanzitutto dalla famiglia, la soddisfazione dei bisogni dell’umanità, e solo in caso di fallimento delle istituzioni di base si può ricorrere a quelle via via superiori.
È sempre Leone XIII a ricordare che la famiglia è una “società piccola ma vera, e anteriore a ogni civile società; perciò con diritti e obbligazioni indipendenti dallo Stato”; anzi, “essendo il consorzio domestico logicamente e storicamente anteriore al civile, anteriori altresì e più naturali ne debbono essere i diritti e i doveri”, tanto che “non è giusto … che il cittadino e la famiglia siano assorbiti dallo Stato: è giusto invece che si lasci all’uno e all’altra tanta indipendenza di operare quanta se ne può, salvo il bene comune e gli altrui diritti”. Lo Stato deve intervenire in ambito familiare solo per assicurare e tutelare i diritti dei cittadini “secondo la retta giustizia. Qui però deve arrestarsi lo Stato; la natura non gli consente di andare oltre”. L’intervento dello Stato (o delle comunità superiori) deve essere pertanto quanto più possibile limitato e diventa necessario esclusivamente se “alla società o a qualche sua parte è stato recato o sovrasta un danno che non si possa in altro modo riparare o impedire”.
In caso contrario si crea un sistema che tende a deresponsabilizzare l’individuo, un sistema che limita fortemente lo stesso libero arbitrio.
Da ultimo osservo che se davvero il papa avesse voluto prendere le distanze del comunismo, avrebbe forse fatto meglio a non definire “un bel programma!” l’impegno dei rappresentanti del Grupp Dialop (Trasversal Dialogue Progject) per la promozione del bene comune attraverso il dialogo tra socialisti-marxisti e cristiani [qui].
Chissà se è consapevole che uno degli elogi più incisivi al sistema capitalista borghese viene da due personaggi insospettabili, che molti citano ma pochi hanno letto: “Durante il suo dominio di classe appena secolare la borghesia ha creato forze produttive in massa molto maggiore e più colossali che non avessero mai fatto tutte insieme le altre generazioni del passato. Il soggiogamento delle forze naturali, le macchine, l’applicazione della chimica all’industria e all’agricoltura, la navigazione a vapore, le ferrovie, i telegrafi elettrici, il dissodamento d’interi continenti, la navigabilità dei fiumi, popolazioni intere sorte quasi per incanto dal suolo -quale dei secoli antecedenti immaginava che nel grembo del lavoro sociale stessero sopite tali forze produttive?”.
Non si tratta di Adam Smith, di John Locke o di Milton Friedman, ma di Karl Marx e Friedrich Engels che nel Manifesto del partito comunista esaltano la produttività della borghesia che tuttavia, nella loro prospettiva, sarà presto soppiantata dal proletariato. Il proletariato non ha vinto, ma uno spettro continua ad aggirarsi per l’Europa, ed è quello dello statalismo.