di Antonio Polazzo
Caro Aldo Maria Valli,
un suo lettore [qui] si è proposto di “sfatare una volta per tutte il falso e famigerato problema dell’una cum”, ritenendo che la “formula” in questione, che ogni sacerdote pronuncia al momento del Te igitur, “non intende assolutamente indicare che il sacerdote celebra in unione con il papa”.
Al Te igitur si pregherebbe per il papa, ma non in unione con lui e in ogni caso, egli continua, “da nessuna parte è scritto che chi celebra lo fa in unione con il papa”.
In altri termini, se non comprendo male, secondo questo lettore al Te igitur si prega per la Chiesa e, unitamente a ciò (una cum), ossia contestualmente, si prega per il papa, ma con tale preghiera non si esprime l’unione al papa e quindi non si esprime l’essere in comunione con lui, il riconoscimento dell’autorità del papa che si nomina, la sottomissione a lui.
Questa interpretazione non è aderente alla realtà delle cose.
Nella preghiera del Te igitur, se le parole “una cum famulo tuo papa nostro” si intendono riferite al soggetto che offre il sacrificio (“tibi offerimus … una cum…”) con esse si dice che il sacrificio è offerto in unione col papa, se le stesse parole si intendono riferite al complemento del verbo offerimus, ossia “pro Ecclesia tua sancta catholica’ (quindi “pro Ecclesia tua … una cum …”), con esse si dice che nel ricevere il sacrificio la Chiesa è una cosa sola col papa, ma il sacrificio è comunque offerto in unione col papa, perché è necessariamente offerto dalla Chiesa stessa (per poter realmente offrire il sacrificio alla Chiesa occorre che il sacrificio sia fatto in unione col papa che, essendone il Capo, è unito alla Chiesa).
Le buone intenzioni del suo lettore sono dichiarate e, ritengo, sincere. È vero, si scorge subito una madornale contraddizione nel leggere il finale invito che egli fa a stare attaccati al papa [1] appena dopo averlo sentito dire che nell’atto più santo ed importante che al mondo si possa compiere, la messa cattolica, chi celebra non lo fa “attaccato” al papa (in unione con lui). Ma il proposito della sua lettera è buono, è quello non “di mettersi su una cattedra ma di correggere fraternamente chi si fa irretire dai soloni odierni” che confondono e scandalizzano le anime.
Certamente quindi il suo gentile lettore accetterà di considerare senza malumori le parole di chi, altrettanto fraternamente, gli farà osservare quanto segue: la messa, anche quando è celebrata privatamente, non è una “devozione privata” o “personale” del celebrante, ma una cosa sempre comandata dalla Chiesa, che è il Corpo mistico di Cristo, senza il mandato della quale il sacerdote non può lecitamente celebrare ed egli la celebra necessariamente come ministro della Chiesa [2]. Dice il Concilio di Trento: “[Cristo] istituì la nuova Pasqua costituendo sé stesso come vittima da immolare, sotto dei segni visibili, dalla Chiesa per mezzo dei preti” [3]. Ebbene, è evidentemente impossibile che la Chiesa comandi di fare qualunque cosa, e specialmente una tal cosa, non in unione col suo Capo Visibile.
Il sacerdote celebra nella persona di Cristo: è Cristo che durante la messa offre il sacrificio di sé stesso, mentre don Tizio e don Caio sono strumento di Cristo. Ora, è evidentemente impossibile che Cristo offra il sacrificio di sé stesso separatamente dal Suo Vicario.
Il luogo della messa in cui si può pregare per il bene del papa come persona privata (ovviamente quando un papa esiste) o per il bene di qualunque fedele oppure per la conversione di chi non ha la fede, non è quello del Te igitur, all’inizio del canone (dove si prega per il papa come papa, il “servitore tuo’” il “papa nostro”), ma quello successivo del memento dei vivi.
A ulteriore conferma che il rito è celebrato in unione col Supremo Gerarca Visibile della Chiesa milita infine il fatto che la preghiera prosegue riferendosi al vescovo (“una cum … Antístite nostro”). Ora, se fosse vero che una cum significa che alla preghiera per la Chiesa “si aggiunge contestualmente” la preghiera per il papa e poi per il vescovo, ma senza alcun riferimento all’unione gerarchica, sarebbe lecito pregare per qualunque vescovo, “a piacere” del celebrante. Ma chiaramente non è così: il vescovo al quale occorre necessariamente riferirsi è il vescovo diocesano, quello dello specifico luogo in cui la messa è celebrata, ciò che mostra nitidamente che quello che si fa lo si fa nell’unità gerarchica della Chiesa (unità di cui, come dice san Tommaso, l’Eucaristia è causa): se la messa è comandata dalla Chiesa, nella singola diocesi questo comando spetta al relativo vescovo, senza il mandato del quale non è possibile celebrare [4]].
Ricordo, per concludere, le seguenti parole di papa Lambertini (Benedetto XIV) tratte dall’enciclica Ex quo primum del 1° marzo 1756: «… a Noi basta poter affermare che la commemorazione del Romano Pontefice durante la Messa, così come le preghiere fatte per lui nel corso del Sacrificio, vanno ritenute, e sono, un esplicito segno col quale lo stesso Pontefice viene riconosciuto come Capo della Chiesa, Vicario di Cristo e Successore del Beato Pietro, e che si fa professione di adesione ferma di cuore e volontà all’unità cattolica; come avverte correttamente anche Cristiano Lupo nel suo scritto sui Concilii (tomo 4, edizione di Bruxelles, p. 422): “Questa commemorazione è la più alta e la più ragguardevole forma di comunione”» [5].
Augurandomi di essere stato di aiuto, porgo a lei e al suo lettore cordiali saluti.
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[1] Stare attaccati alla Chiesa di sempre significa ineluttabilmente stare attaccati al suo Capo Visibile, quando c’è. Se poi questo lettore avesse inteso parlare di una “Chiesa di sempre” come cosa diversa dalla “Chiesa attuale”, non sarebbe difficile fargli notare che egli è ben oltre ogni possibile “sedevacantismo”, di cui suppongo si stia lamentando.
[2] Che è poi la ragione per cui il prete celebra con il rito che gli dà la Chiesa, non con quello che asseconda i suoi gusti, perché l’intenzione nel celebrare è l’intenzione della Chiesa.
[3] Concilio di Trento, sessione XXII, capitolo 1, Istituzione del Santo Sacrificio della Messa: “[Christus] novum instituit Pascha, seipsum ab Ecclesia per sacerdotes sub signis visibilibus immolandum”.
[4] In un agile libricino edito dalla Maison Saint Joseph (Serre-Nerpol, 3° ed. 2023) don Francesco Ricossa mette in evidenza (senza le sviste e gli errori nei quali posso essere incorso io) queste e altre cose sul significato dell’espressione una cum; si intitola Ce qu´il faut savoir sur la messe non Una cum.
[5] “Sed quidquid sit de hoc controverso Ecclesiasticæ eruditionis capite, Nobis satis est affirmare posse, commemorationem Romani Pontificis in Missa, fusasque pro eodem in Sacrificio preces, censeri, et esse declarativum quoddam signum, quo idem Pontifex tanquam Ecclesiæ Caput, Vicarius Christi, et B. Petri Successor agnoscitur, ac professio fit animi et voluntatis Catholicæ unitati firmiter adhærentis; ut etiam rectè advertit Christianus Lupus, super Conciliis scribens Tom. 4. Edit. Bruxell. pag. 422. Hæc commemoratio est suprema et honoratissima Communionis species“.