Sacerdos et Pontifex,
et virtutum opifex.
di monsignor Carlo Maria Viganò
Quattrocentoquarant’anni fa, il 3 novembre del 1584, san Carlo Borromeo rendeva l’anima a Dio all’età di quarantasei anni. Apparteneva all’antica e nobile famiglia padovana dei Buon Romeo, che aveva il proprio castello e la contea ad Arona, sul Lago Maggiore. Tonsurato a soli sette anni, a partire dal novembre del 1552 fu studente di diritto a Pavia, divenne dottore in utroque jure nel 1559. Votato alla prelatura in quanto cadetto, iniziò la carriera ecclesiastica a ventidue anni, quando lo zio Giovanni Angelo de Medici – eletto Papa col nome di Paolo IV – gli conferì importanti incarichi: abate commendatario di una dozzina di abbazie, legato delle Romagne, protettore del Regno di Portogallo e dei Paesi Bassi, arciprete di Santa Maria Maggiore, gran penitenziere, amministratore della Diocesi di Milano, e poi segretario di Stato. La vita del giovane Carlo fu dedicata al servizio della Chiesa e del Papato, sicché il cognome Buon Romeo pare perfettamente esprimere la fede del pellegrino che fa volta verso la Roma dei Martiri, la Roma di Pietro e Paolo, e la Roma della grande Riforma cattolica e del Concilio di Trento.
Il suo ideale presbiterale consisteva nel creare un corpo, distinto dagli altri, le cui parti si collegavano organicamente e obbedivano tutte a una testa. «Voi siete i miei occhi, le mie orecchie, le mie mani» diceva Carlo ai suoi sacerdoti: questa metafora aveva in lui valore letterale. Fondò gli Oblati di Sant’Ambrogio, prendendo ad esempio le costituzioni degli Oratoriani di San Filippo Neri. La sua congregazione costituiva un corpo di volontari a disposizione del vescovo, ben addestrati e formati, disposti ad assumere incarichi difficili e impegnativi. Gli Oblati vennero impiegati per la direzione dei seminari e, soprattutto, per la predicazione delle missioni al popolo. Il loro carisma, nel quale si ravvisano molti elementi ignaziani, consisteva nel tenere viva una spiritualità contrassegnata dall’appartenenza al clero diocesano, dal voto di obbedienza al vescovo e dalla salvaguardia degli elementi propriamente ambrosiani.
La situazione della Chiesa nel Cinquecento non era delle migliori. Al decadimento morale dei laici e del clero a causa della secolarizzazione indotta dalla cultura del Rinascimento – di netta impostazione neopagana, cabalistica ed esoterica nei ceti dirigenti – si accompagnava una scarsa formazione dottrinale. La corruzione della Curia romana, presa a pretesto dagli eretici per attaccare il Papato, rendeva assai arduo il governo della Chiesa e ben poco efficace il ministero dei Pastori.
Il Concilio tridentino, cui Borromeo collaborò attivamente, giunse a sanare questa crisi ecclesiale con una grande riforma che diede nuovo impulso all’intera società, nonsolo sotto un profilo religioso, ma anche morale, culturale, artistico ed economico. Esso diede inizio alla fondazione dei seminari, grazie ai quali i chierici erano preparati ad affrontare gli impegni sacerdotali nelle varie discipline ecclesiastiche. I papi e i vescovi tridentini si comportarono insomma in modo diametralmente opposto a ciò che fecero i papi e i vescovi del Concilio Vaticano II, che usarono il loro “concilio” non per combattere i nuovi errori, ma per introdurli nel sacro recinto; non per restaurare la sacra Liturgia, ma per demolirla; non per raccogliere il gregge cattolico intorno ai Pastori, ma per disperderlo e abbandonarlo ai lupi. Se san Carlo fu infiammato di amore per la Messa e per la Santissima Eucaristia – famose le sue omelie al popolo e le sue meditazioni al clero su questo tema – i vescovi di tre secoli dopo ne calpestarono l’eredità, indebolendo proprio quei due presidi dell’ortodossia cattolica che nuovamente erano minacciati dal neoprotestantesimo di cui essi si facevano promotori. Se san Carlo fu devoto fautore del culto mariano, del quale comprendeva la forte valenza antiprotestante, i fautori del Vaticano II cercarono in tutti i modi di indebolirlo, per favorire colpevolmente il dialogo ecumenico. E quei seminari e atenei che il Borromeo fondò per la difesa della Fede e la disciplina del clero, trecento anni dopo divennero ricettacoli di ribelli e di fornicatori. E ciò non avvenne per un caso, ma per la deliberata e scellerata volontà di distruggere quel modello che si era rivelato incontestabilmente efficace, affinché la Chiesa cattolica si ritrovasse come e peggio che nel Cinquecento.
Il modello dei beni fondiari di cui la famiglia Borromeo era proprietaria e il suo spirito genuinamente lombardo, ispirò san Carlo nel governo della Chiesa. La sua economia pastorale ne portò il segno e consistette nel distribuire “terre” a buoni fittavoli (i pastori), a visitarli e controllarli. Essa era geografica e territoriale, mirava ad un miglior rendimento in termini di raccolti e di “frutti” dei terreni – le parrocchie – affidati a economi zelanti. L’insieme dei testi votati dal Concilio di Trento nel 1562-63 presentava l’ideale, offerto ad un’ambizione più alta e legato all’urgenza dei tempi, della eminente dignità e dei doveri del vescovo. Per tutta la vita i Canones reformationis generalis di Trento ebbero per san Carlo il valore di una rivelazione decisiva. Egli assistette e collaborò alla produzione di questa immagine del vescovo, uomo d’azione: «huomo di frutto et non di fiore, de’ fatti et non di parole» a dire del cardinal Seripando. Il Borromeo non poteva concepire la Fede senza le opere – dottrina fondamentale del Tridentino, negata dal sola fides dai protestanti – e la sua vita fu un monumento all’azione pastorale, nutrita di solida spiritualità e di un grande amore per il popolo, per i poveri, per i bisognosi. Anche in questo, significativamente, il suo esempio è eloquentissimo: il suo impegno nella cura degli appestati durante la peste che colpì Milano nel 1576-1577 lo portò a indire processioni penitenziali e a visitare e comunicare personalmente i malati nei lazzaretti. I pavidi cortigiani, figli del Vaticano II, che qualche anno fa si sono rintanati nelle loro Curie proibendo addirittura la celebrazione della Messa durante la farsa pandemica, dovrebbero arrossire di vergogna dinanzi allo zelo di san Carlo e del suo clero.
Una regola data ai sacerdoti dal Tridentino era se componere (Conc. Trid., VIII, p. 965), conformarsi al ruolo, trasformarsi alla lettera: «È tanto il desiderio mio che hormai s’attenda ad exequir, poi che sarà confirmato questo Santo Concilio conforme al bisogno che ne ha la Christianità tutta e non più a disputare». Il Borromeo non fu teologo, né grande disputatore – motivo per cui non lo vediamo annoverato tra i Dottori della Chiesa – ma pastore, ossia fedele esecutore. «Noi vorremmo avere osservato diligentemente tutto ciò che è stato prescritto in tutti i Sinodi precedenti» disse nel 1584. E ancora: «La vita di un Vescovo deve regolarsi […] unicamente secondo le leggi della disciplina ecclesiastica». Quale abisso, cari fratelli, separa questa stirpe di santi Prelati da coloro che oggi ne hanno preso il posto! L’obbedienza di quelli si è mutata in ribellione di questi, la povertà in brama di beni e potere, la castità in vizi e fornicazione, la fedeltà al Magistero in ostentato incoraggiamento dell’eresia.
San Carlo sapeva anche scegliere i propri collaboratori, spesso sottraendoli ad altre diocesi, al punto che san Filippo Neri, con la confidenza usuale tra Santi, lo chiama «ladro di vescovi». Quando divenne arcivescovo di Milano, nel 1564, egli indisse il Sinodo diocesano e raccolse i suoi milleduecento sacerdoti per dettar loro un programma di applicazione dei decreti tridentini e una serie di misure disciplinari (residenza, riduzione del numero dei benefici, moralità, studi ecclesiastici, pratiche pastorali) che non mancò di sollevare proteste, specialmente quando egli applicò multe pecuniarie ai chierici disobbedienti. Affidò il Seminario ambrosiano ai gesuiti, continuando a vigilare e sorvegliare nei minimi dettagli la vita dei giovani che vi si formavano. L’istituto della visita pastorale fu uno strumento che consentì a san Carlo di seguire la vita delle parrocchie, facendo sì che i Decreti del Concilio di Trento trovassero piena applicazione.
Quando nel 1565 morì lo zio Pio IV de Medici e nel 1566 venne eletto Pio V Ghisiglieri, il Borromeo si dedicò interamente alla cura animarum nella propria Diocesi. Qui combatté strenuamente il diffondersi delle eresie luterane, calviniste, zwingliane ed infine anabattiste che trovavano seguaci presso gli agostiniani, i francescani e i domenicani. Ma contro le ribellioni, le sette, i carnevali e le concussioni – i suoi principali avversari – san Carlo preferiva i rigori della predicazione o della legge ecclesiastica, più che le interferenze del potere temporale, all’epoca sotto la dominazione spagnola. Forte dell’esempio del suo illustre predecessore sant’Ambrogio, mai egli si piegò allo strapotere dell’autorità civile, alla quale non esitò a comminare anche la scomunica. Il Borromeo creò così un corpo d’élite, grazie a istituzioni modello in cui tutti i metodi applicati nella diocesi potevano funzionare in modo esemplare: «Nihil magis necessarium aut salutare videri ad restituendum veterum ecclesiasticorum disciplinam quam Seminarii institutionem». Niente sembra più necessario o salutare per restaurare l’antica disciplina degli ecclesiastici che l’istituzione di Seminari. San Carlo si occupò delle vocazioni tardive, dei curati di villaggio, dei piccoli seminari, della formazione ecclesiastica nei cantoni svizzeri limitrofi, il Ticino e i Grigioni. Ma l’élite che vi si formava non era quella della ricchezza o della nobiltà né quella del sapere: i poveri vi erano largamente ricevuti e finanziariamente aiutati. Contro la letargia dei preti e dei vescovi egli oppose l’ascesi, per farne servi, patres, et angeli. Servitori del vescovo nel suo servizio dei fedeli; padri delle anime, sull’esempio dei Padri della Chiesa antica e dei loro successori; angeli, infine, per l’imitazione di un ordine gerarchizzato, per la castità che vale loro una posterità spirituale, e per il loro statuto di esseri separati. I balli o le superstizioni che egli soppresse, le sostituì non con discorsi, ma con gesti: guidò egli stesso le processioni di reliquie, si professò pubblicamente devoto dei Santi, si fece pellegrino della Sacra Sindone a Torino o della Vergine a Varallo, Varese, Saronno, Rho, Tirano o Loreto. E seppe essere tanto fiero Principe della Chiesa dinanzi ai potenti, quanto tenero Pastore del popolo cristiano, sempre senza mai umiliare la dignità di cui era insignito. Scrive eloquentemente di lui il nipote e successore sulla Cattedra milanese, Federico: «Mai non si scardinalava, ed […] era un Vescovo che mai non si svescovava».
San Carlo, infine, fu colui grazie al quale nel 1575 venne ripristinato il venerabile Rito Ambrosiano, nel quale sono stato battezzato per immersione e in cui celebro quotidianamente il Santo Sacrificio. Ancora oggi sopravvive, nella sua versione non corrotta dalla pseudoriforma liturgica di Giovanni Battista Montini, in alcune chiese della diocesi di Milano.
Invochiamo l’intercessione di san Carlo Borromeo – del quale mi onoro di portare il nome – in questi tempi dolorosi che travagliano la Santa Chiesa. Possa egli essere per noi modello ed esempio, specialmente per quanti di voi si apprestano ad ascendere i gradi dell’Ordine Sacro e per quanti sono già sacerdoti. Ci guidi nella nostra vita e nel nostro Ministero la dignità con cui san Carlo ricoprì importanti e delicati incarichi al servizio della Chiesa; la fermezza paterna con la quale seppe riformare il clero e la disciplina ecclesiastica; la mansuetudine con cui istruì il gregge affidatogli dal Signore; la severità verso se stesso nell’orazione, nel digiuno e nella penitenza. Affidiamo alla sua protezione la Barca di Pietro, nave senza nocchiere in gran tempesta, perché implori dal Cielo nuovi santi Pastori che non si prostrino al mondo, ma a Cristo; che siano fedeli alla Santa Chiesa e al Papato Romano, e non asserviti ai nemici dell’una e dell’altro. E come abbiamo udito dal Vangelo di ieri, riponiamo la nostra fiducia in Nostro Signore, addormentato mentre i flutti minacciano di sommergere l’unica Arca di salvezza. Alle nostre preghiere risponda la voce serena del Salvatore, che comanda al mare e ai venti. Tempora bona veniant. E così sia.
+ Carlo Maria Viganò, Arcivescovo
4 novembre MMXXIV a. D.ñi
S.cti Caroli Episcopi Mediolanensis et Confessoris