La crisi della medicina e il futuro dell’uomo. Intervista al professor Frajese
Giovanni Frajese (Roma, 21 febbraio 1972), medico specializzato in endocrinologia, docente e autore, fra gli altri, del libro
di Rita Bettaglio
Chi è Giovanni Frajese?
Direi che sono semplicemente un uomo e allo stesso tempo un cercatore, un seeker. Sono sempre stato una persona alla ricerca della verità, e cerco di comprendere come funziona il mondo nel quale vivo, il senso della vita stessa. Domande abbastanza archetipiche ma che sono state un po’ abbandonate. La critica costante è stata in primis nei confronti di me stesso (e il lavoro ovviamente non è finito).
Perché è venuto alla ribalta proprio con la bufera del Covid?
Che cosa mi ha fatto uscire nel periodo dell’emergenza? L’emergenza in quanto tale, altrimenti non ci avrei mai pensato. Non ho mai avuto il desiderio di apparire né di avere un ruolo pubblico.
Lei è medico e professore universitario: che visione ha della medicina? Che ruolo deve e può avere?
La figura che può incarnare il senso proprio dell’essere medico è, più di ogni altra, Giuseppe Moscati: un santo che ha trasformato la propria vita in una costante opera di attenzione al prossimo sofferente. Un altro esempio è san Camillo de Lellis, che vedeva nel malato Gesù stesso. Questo è il nucleo vero della medicina: nel momento di maggiore fragilità le persone consegnano nelle mani del medico la loro salute e il medico è chiamato a prendersene cura. La medicina contemporanea da lungo tempo ha perso questa coscienza. La tecnica e la scienza sono anch’esse necessarie, ma non si può prescindere dall’umanità. La cura verso la persona nasceva da una profondità di pensiero e di conoscenza: non è un caso che nei tempi passati i medici parlassero più lingue e fossero quasi dei filosofi. Purtroppo oggi la sinergia con le case farmaceutiche ha fatto del medico un tecnico più che un artista. Da troppo tempo, ormai, si sono creati interessi esterni al rapporto di cura, oltre che numerosi conflitti d’interesse.
Pare che tutto, ormai, funzioni in base a protocolli. Il protocollo è il nuovo deus ex machina. Ma da dove escono e chi li stila?
Lo abbiamo visto nella storia del Covid, con il famigerato protocollo “tachipirina e vigile attesa”. Nessuno sa quale fosse il razionale scientifico dell’uso di una sostanza che non è neppure un antinfiammatorio, né da dove sia uscito questo protocollo. Eppure la maggior parte delle persone si è uniformata. Il punto è che, una volta dato un protocollo, la maggioranza dei medici lo utilizza perché si sente al sicuro: infatti se si utilizzano i protocolli, giusti o sbagliati che siano, la responsabilità civile e individuale del medico viene abbattuta. Questa standardizzazione è un altro dei grossi problemi perché di fatto ha portato alla distruzione del principio fondamentale del medico: curare secondo scienza e coscienza. Ogni persona è differente dall’altra. Questi protocolli sono proposti da specialisti importanti a livello internazionale che li presentano ai congressi: rappresentano la loro idea di trattamento di una patologia. Purtroppo però molti di loro sono legati a doppio filo con gli interessi delle case farmaceutiche.
La figura del medico appare in crisi: Che ruolo gioca la formazione? Spesso sembra che i medici non siano pronti ad affrontare ciò che vedono e siano incapaci di osservare e correlare le cose…
La capacità di analisi critica non viene più richiesta agli allievi medici. E non viene più insegnata. Non avendo solide basi speculative, un neolaureato tenderà a seguire i protocolli perché gli danno sicurezza. Teniamo conto che egli ha studiato tanto, ma ha praticato poco la medicina e quindi non sa relazionarsi col paziente. Se non sviluppa una capacità di analisi il protocollo diventa la sua bandiera, la strada più facile, quella che crea meno problemi in assoluto. Prendersi la responsabilità di trattare le persone come esseri umani e non come numeri significa anche mettersi in gioco, portarsi a casa le sofferenze condivise con le altre persone: questa è una parte fondamentale dell’essere medico. Il paziente ha bisogno di sentirsi preso in cura e quindi accolto, ascoltato e compreso. Oggi invece non si cerca più di capire il motivo dei sintomi che riferisce, la causa degli asterischi sulle analisi. Prevale un approccio di tipo farmacologico, assai semplicistico.
Un tempo i libri parlavano di vis riparatrix naturae…
Non solo, ma si parlava di restitutio ad integrum: la cura doveva portare il paziente a tornare a essere come prima di ammalarsi. Questo tipo di approccio non c’è quasi più: oggi, se c’è un problema di qualche tipo, si entra in una sorta di controllo continuo. Non si guarisce mai, ma si ha sempre bisogno di controlli costanti e ripetuti nel tempo. Devono essere tutti malati per sempre, e questo è l’obiettivo dell’industria farmaceutica.
Il suo libro s’intitola Contrastare le minacce alla salute e all’anima…
Le minacce alla salute sono soprattutto quelle che riguardano i trattamenti farmacologici di persone che sono sane. Esse vengono spinte in una maniera illogica e priva di senso scientifico. Un esempio su tutti: in questi quattro anni è stato chiesto ai sanitari e poi alle persone di farsi una patologia e tre mesi dopo, per poter lavorare, di “vaccinarsi” per la stessa patologia. Un approccio francamente inspiegabile. Purtroppo la maggior parte dei colleghi ha aderito senza alcuna critica. Abbiamo visto una cosiddetta scienza che è stata in grado di mentire alle persone, e questo è molto grave. Mentire sapendo di mentire: ad esempio riguardo queste ultime “vaccinazioni”.
Può spiegare meglio?
All’inizio pensavo fosse ignoranza, poi ho capito che era semplicemente propaganda. I dati in realtà erano ben noti. Menzogne a partire dall’inoculo stesso: si è detto che la sostanza sarebbe rimasta lì nel braccio e non sarebbe andata in giro, ma io lo dissi pubblicamente in Senato, mostrando la tabella di distribuzione della Pfizer: non è vero che rimane dove viene inoculata ma va in giro dappertutto. Ad esempio, riferendomi alle bambine, va nelle ovaie. Mi chiedevo perché che mai stessero mentendo visto che i dati dicevano una cosa completamente diversa. I dati scientifici erano presenti fin dall’inizio.
Una prima grande menzogna. E poi?
La seconda menzogna fu che il prodotto venisse degradato in 24-48 ore. Oggi sappiamo che non viene degradato a causa di una base sintetica, la pseudouridina, che è stata messa all’interno di questi RNA e che ne rende difficile la distruzione. Nessuno ad oggi sa quanto tempo occorra. Abbiamo un profarmaco la cui azione non sappiamo quanto duri. Stiamo vedendo, in maniera diretta e indiretta, che dura mesi e probabilmente anni. Ma, se rimane così a lungo, perché la necessità di richiami a brevissimo tempo? È solo un esempio.
Queste minacce da dove originano?
Non è facile rispondere. Di certo queste situazioni di conformità nascono da un impoverimento della classe medica e accademica Allo stesso tempo la medicina ha, volontariamente o meno, un grosso conflitto d’interesse nel fissare tutta una serie di parametri per definire chi sia malato e chi non lo sia. Ad esempio, indicare come pressione arteriosa ottimale 120/80 a qualunque età è un fatto antifisiologico e porta alla prescrizione indiscriminata di farmaci antipertensivi. Questo è solo un esempio. La vera questione è il conflitto d’interessi che andrebbe risolto alla radice: la questione economica e quella medica non possono essere sullo stesso piano.
Qui viene fuori il discorso della ricerca medica. Chi paga comanda. Dunque, che fare?
La ricerca non può essere in mano ai privati. La soluzione non è una partnership pubblico-privato, perché significa dare al privato le chiavi di controllo del pubblico. Il privato ho l’obiettivo di creare profitto, non di creare salute. Bisogna ritornare a un approccio umano e svincolato dalle logiche del profitto.
Sarà mai possibile o siamo già oltre il punto di non ritorno? Ci sono luci e speranze all’orizzonte?
Sarà possibile solo in caso di “terremoti” d’informazione e scientifici. Non nascondo che c’è una certa speranza nel vedere, ad esempio, Kennedy guidare la sanità negli Usa. Sarà importante avere a disposizione i dati reali e poterli comunicare. Se questo accadrà, il problema di una scienza troppo legata agli interessi dell’industria farmacologica diverrebbe chiaro e sarebbe un’enorme scossa in grado di cambiare le cose. Credo che dobbiamo guardare al di là dell’oceano. Da noi non vedo segnali in controtendenza. Abbiamo la speranza di vedere un cambiamento dei paradigmi e la possibilità di esprimere i dati reali, non solo in medicina, ma anche per l’uso di sostanze chimiche in agricoltura o nell’industria alimentare.
Nel suo libro parla anche di minacce all’anima. Che cosa intende?
Le minacce all’anima sono le minacce al senso stesso della vita, nell’ambito della spiritualità dell’essere umano. La verticalità, la ricerca del senso profondo di parole, pensieri e azioni, è stata distrutta. Si punta all’immagine, al consumo rapido, più che al contenuto. Di qui un appiattimento e una normalizzazione del livello di percezione della vita stessa.
Chi è più minacciato?
I veri target di questa ristrutturazione del pensiero sono i bambini. Si cerca d’instillare in loro un’ideologia che riguarda tanti aspetti: dalla sessualità all’identità del sé, alla relativizzazione di qualunque concetto. Tutto ciò porta a una grossa uniformità di pensiero e all’incapacità di sviluppare una personalità in grado di opporre resistenza. La parola stessa, resistenza, è stata per lo più abbandonata a favore del termine resilienza, che significa una cosa completamente diversa.
C’è un attacco all’identità della persona…
Sì, ma non solo: c’è proprio la voglia di destrutturare qualunque livello di profondità, di trasformare il tutto in una superficie multicolorata dove sia possibile pensare di essere qualunque cosa, senza conoscere sé stessi veramente. Quasi l’opposto di quello che c’è scritto sull’oracolo di Delfi. Il “conosci te stesso” si è trasformato in “diventa quello che tu credi di essere”, perché tutto è permesso nel meraviglioso mondo della mente. Ma ciò non corrisponde alla realtà. Non si parla più né di valori né di principi ma solo di diritti, sempre più superficiali e svuotati di significato. La vita allora è inutile e può essere interrotta con l’eutanasia o l’aborto, l’atto sessuale diventa insignificante, consumabile con chiunque e in qualunque maniera. I giovani, non avendo una direzione e la capacità di sentire cosa sia buono o giusto, sono trascinati dalle correnti, dagli influencer che determinano il modo di pensare delle nuove generazioni, allo scopo di rendere le persone più superficiali e vuote possibili.
Un quadro che parrebbe senza speranza. Quale argine vede per una simile deriva?
Siamo a un livello estremamente basso per quanto riguarda l’aspetto morale ed etico dell’essere umano in quanto tale. Viviamo nella società basata sul profitto e sull’approfitto. Questo genera confusione e paura. Il quadro potrebbe sembrare senza speranza ma, allo stesso tempo, la vita è più importante di quello che noi percepiamo. Qualcosa succederà: non sono in grado di prevedere che cosa, ma le cose torneranno a essere in una maniera sensata. La tendenza dell’uomo e della società è distruttiva, come noi abbiamo visto in questi ultimi quattro anni, ma non durerà a lungo. Qualcosa fermerà le persone e le porterà a riconsiderare che cosa è più significativo nella vita.
Quindi, non è detta l’ultima parola…
È così. Non c’è una notte che non abbia fine.