di Michela Di Mieri
San Martino de Porres (Lima, 1579 – 1639) non si limitò a gestire un’infermeria aperta a tutti e la prima clinica veterinaria della storia del mondo, ma fu anche fondatore del collegio della Santa Croce, destinato a ospitare sia i tanti vagabondi e mendicanti, per lo più neri o indigeni, sia gli altrettanti numerosi orfani, abbandonati completamente a loro stessi, data la totale mancanza di qualsiasi istituzione, laica ed ecclesiastica, che si occupasse di loro. Frate Martino, grazie all’aiuto di alcuni benefattori, riuscì a procurarsi il denaro necessario per costruire il grande edificio e per assumere in pianta stabile insegnanti e balie. Nel collegio veniva insegnato un lavoro, si coltivavano i campi, c’era una scuola e si impartiva una formazione cattolica.
In questo terzo e ultimo episodio [qui e qui i primi due] racconteremo di come frate Martino riuscisse a farsi ascoltare anche dagli animali selvatici, anche da quelli aborriti dai più, tra cui i topi, e di come sapesse volgere ogni difficoltà in un’occasione attraverso la quale fare agire e risplendere la Provvidenza, che si serve di ogni creatura per operare il bene.
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Come ogni sabato pomeriggio, frate Bias stava facendo catechismo a un gruppo di bambini indigeni nell’aula al piano terra del collegio di Santa Croce. Grazie alla giornata primaverile filtrava dalle grandi finestre un raggio di sole caldo e benevolente, creando l’atmosfera più consona al racconto della Creazione divina.
I bambini ascoltavano rapiti le parole del grosso frate dall’aria bonaria, così come si ascolta una favola, di quelle che nessuno aveva mai raccontato loro, e nell’ampia sala si sentiva soltanto il vocione del frate: “…e allora il buon Dio si accorse che ci volevano anche gli animali che camminassero sulla terra, non solo quelli che volavano. E così…
“Così creò il topo!” disse con voce squillante un bimbetto dal fondo dello stanzone, tutto soddisfatto.
“Beh, anche quelli, sì” rispose il frate, stupito dall’interruzione, quando solitamente i bambini, immersi nella storia, non fiatavano. Questa cosa lo insospettì e lo portò ad indagare.
“Juanito, dimmi, come mai, tra tutti gli animali, ti è venuto in mente proprio il topo?”.
“Perché me ne stanno passando adesso alcuni sotto la sedia! Vedi? Vanno e vengono da quel buco nel muro!” rispose il piccolo Juanito in tutta tranquillità.
Ma se al bambino, che aveva trascorso la sua prima infanzia per strada, la presenza di topi non procurava il minimo disagio, a frate Bias corse un brivido lungo la schiena. Topi che scorrazzavano in pieno giorno liberamente e impunemente? Ma quanti dovevano essercene, dunque?
Mentre gli riaffioravano nella mente le terribili immagini delle cataste di cadaveri pieni di bubboni che aveva visto durante l’ultima epidemia, quando ancora era in Spagna, sentenziò che, per quel giorno, la lezione era finita e, con il sottofondo dei bambini che si scapicollavano festanti in cortile a giocare, si affrettò nella dispensa e nella lavanderia, per fare un giro di ricognizione. Quale fu il suo sconforto nel constatare che molta della biancheria era tutta rosicchiata, e che parte dei viveri erano irrimediabilmente da buttare! Rimuginando su a cosa mai servissero tutti quegli inutili gatti che frate Martino gli portava in continuazione, con la scusa della caccia al topo, si affrettò verso l’infermeria del convento, sicuro di trovarlo, come ogni giorno, chinato su piaghe e ferite.
“Va bene, frate Bias, ho capito. Porterò altri gatti: non ne mancano mai per le strade di Lima” disse candidamente frate Martino all’angustiato confratello, non appena questi finì di esporgli il problema.
“No, frate Martino, per carità, basta gatti!” rispose quello, il quale avrebbe scommesso una delle sue due tonache che il buon Martino gli avrebbe proposto di riempirlo di altri felini.
“Se tu ne portassi altri cento, dopo poco passerebbero le giornate a sonnecchiare al sole, belli pasciuti, senza darsi la briga di muovere una zampa, così come gli altri! Mi dispiace, ma devi lasciarmi fare a modo mio”.
Sebbene a Martino sembrò di aver ricevuto uno schiaffo in pieno volto, sapeva che il suo confratello diceva il vero, sui gatti e sui topi.
“Fratello Bias, hai ragione. Ti chiedo di lasciarmi soltanto fino a domani. Dopo la Messa mattutina verrò al collegio e, se il Cielo non mi avrà ispirato una soluzione alternativa, avrai mano libera”.
Frate Bias, per l’affetto che provava per il buon Martino, non osò rifiutare quella manciata di ore di dilazione e se ne tornò al collegio, figurandosi i dettagli dell’operazione sterminatrice che, ne era certo, sarebbe stata inevitabile.
Verso il tramonto, mentre frate Martino rientrava al convento dalla sua serale visita all’ospedale veterinario allestito dietro casa della sorella, si avvide che, sul ciglio della strada, stava malamente sdraiato un asino, visibilmente malconcio, sporchissimo e così esausto da non alzare la testa neppure quando Martino gli si avvicinò a un palmo di naso. Il frate, accertatosi che l’animale era abbandonato a sé stesso, si chinò su di lui e per prima cosa lo accarezzò sul muso. Solo allora la bestia sollevò i suoi occhioni scuri e rotondi sull’uomo, il quale vi lesse dentro una completa rassegnazione alla morte. Martino iniziò a dargli una rapida occhiata nella penombra della sera e, oltre ad accorgersi che l’asino era in realtà un’asina, notò che una zampa posteriore era fratturata. Senza por tempo in mezzo, cercò un bastone sufficientemente diritto e glielo pose lungo l’arto, quindi lo fissò con alcune bende che sempre, per un motivo o per un altro, aveva con sé. Infine, le parlò con quel suo modo gentile che era solito usare con gli animali: “Adesso puoi camminare, creatura di Dio; alzati e vieni con me!”. E quella, dopo averlo fissato ancora con lo sguardo umido che pareva non avere un fondo, a fatica, nitrendo e sbuffando, lentamente si mise in piedi e, zoppicando, seguì frate Martino fino al convento.
Lì, lavata, rifocillata e ricoverata nella stalla dei cavalli, Martino poté effettuare una visita più accurata alla zampa: sarebbe senz’altro guarita, ma avrebbe mantenuto una zoppia che le avrebbe impedito di poter reggere i carichi pesanti. E già sentiva la reprimenda del priore, tra le risate sotto i baffi dei suoi confratelli: “Anche un’asina zoppa, adesso! Cosa pensi che siamo qui, l’ospizio delle bestie inutili? Non abbiamo già abbastanza grattacapi per nutrire i cavalli? O pensi, frate Martino, che il fieno piova dal cielo?”.
Non si deve credere, infatti, che il convento traboccasse d’oro. Tutt’altro! Le difficoltà economiche tallonavano costantemente il povero priore, il quale non poteva fare altro che spremere l’altrettanto povero padre economo, perché si inventasse come poter allungare una coperta sempre troppo corta.
E così frate Martino, quella notte, non volle dormire. Era suo costume, quando un problema, uno di quelli apparentemente senza soluzione, lo attanagliava, trascorrere la notte vegliando e mettendo nelle mani di Chi tutto può le cure del suo sconfinato cuore, in umile e paziente attesa della Sua risposta, che mai, fino a quel momento, aveva mancato di giungergli.
“Padre del cielo e della terra, di tutte le creature, di quelle dotate di ragione e di quelle che obbediscono all’istinto, le quali nondimeno conoscono il dolore e l’afflizione e che patiscono con noi la colpa di Adamo, Tu che tutto puoi, che trai il bene dal male per vie di cui noi neppure immaginiamo l’esistenza, illumina la mia povera mente. Tu che, tramite me, hai voluto sottrarre ad una lenta morte per inedia una tua creatura, appartenente a quella specie che tanto aiuto porta ai Tuoi figli con la sua paziente fatica, ti prego, indicami quale uso benefico io possa farne, così che i miei confratelli siano felici di tenerla con noi”.
Così pregava frate Martino della carità, inginocchiato davanti all’altare maggiore della grande chiesa conventuale vuota e silenziosa, immerso in un buio rischiarato soltanto dalla fiammella tremolante della lampada a olio, che testimoniava la presenza del Salvatore.
Per quanto la volontà di vegliare fosse salda e ben allenata, la fatica delle intense giornate ebbe ragione del piccolo frate mulatto che, senza neppure accorgersene, scivolò in un sonno profondo e assoluto. E sognò.
Nel sogno vide i campi attorno al collegio, la terra arata, pronta per essere seminata; vide frate Bias che si grattava la testa, mentre osservava il cesto pieno dei semi di camomilla che stazionavano già da un po’ nella dispensa del collegio, e che gli diceva: “Frate Martino, ci vorrebbe un animale che facesse dei solchi, ma né troppo profondi né troppo superficiali, così che questi semi, così delicati, possano germogliare e noi, con il ricavato della vendita della camomilla, possiamo tenere aperto il collegio…”.
A quelle parole, l’immagine del rubicondo confratello direttore del collegio svanì e Martino si ridestò: le nebbie del sonno e quelle della sua mente si dissolsero all’unisono. La camomilla! Quante volte ne avevano parlato con frate Bias! Era tutto pronto per piantarla, mancava solo la bestia, ed ecco, ora l’avevano: era zoppa, ma poteva camminare, e tanto bastava.
Dopo la messa del mattino, cui aveva assistito colmo di gratitudine verso il buon Dio, Martino si incamminò verso il collegio insieme all’asina, visibilmente rinfrancata dalla notte di riposo passata nel caldo nella stalla. Nel vederli arrivare, frate Bias si chiese cosa mai potesse essersi inventato Martino per presentarsi accompagnato da un equide alquanto malconcio.
“Fratelli, da oggi sarà con noi questa nuova compagna. Il buon Dio, nella sua infinita benevolenza, ce l’ha regalata, affinché finalmente possiamo piantare la camomilla che ci permetterà di avere quel guadagno di cui la nostra casa ha tanto bisogno. Non è importante il fatto che sia zoppa: le sue impronte daranno alla terra la profondità giusta perché i semi di camomilla possano germogliare” annunciò frate Martino agli abitanti tutti del collegio, bambini e adulti, frati e aiutanti, radunati per l’occasione nel grande cortile.
“Frate Martino – intervenne un bimbetto dalla pelle scura e dagli occhi del carbone – come si chiama?”.
Il nome! Con tutto il trambusto che aveva per la mente, non ci aveva mica pensato! E sempre lo stesso bimbetto, facendosi tutto serio e risoluto, dichiarò: “Ci darà la camomilla, quindi la chiameremo Manzanilla! L’asina Manzanilla!” e il battesimo fu accolto da risate, fischi e applausi di approvazione.
“Ehm” fece frate Bias, guardando con eloquenza frate Martino, che pareva essersi dimenticato della questione dei topi, tutto preso dai festeggiamenti per l’arrivo di Manzanilla.
Martino, divenuto mesto, con rassegnazione disse: “Non ho dimenticato il nostro accordo. E sia. Hai mano libera: usa pure i tuoi metodi per liberarci dai topi; io non ho trovato alcuna soluzione alternativa”.
Frate Bias tirò un sospiro di sollievo e stava proprio per aprire bocca per dare le consegne agli aiutanti quando l’asina, fino a quel momento di una tranquillità da sembrare finta, iniziò a ragliare, a scalciare imbizzarrita, in preda a un’agitazione improvvisa e subitanea che neppure Martino, al quale in genere gli animali davano ascolto, sembrava in grado di placare. In tre, quattro uomini faticavano a tenerla ferma, e non riuscivano a portarla nella stalla. Nel bel mezzo del trambusto, Martino si avvide di una fila di topolini che stavano attraversando a tutta velocità il cortile, proprio di fronte al muso dell’asina.
“Cominciamo bene!” disse frate Bias, alzando gli occhi al cielo. “Un asino che si spaventa alla vista dei topi! Come se, in mezzo ai campi non ce ne fossero! Ah, i miei poveri semi di camomilla!” e già li immaginava svolazzanti sotto i fendenti degli zoccoli impazziti.
Ma com’era possibile che Manzanilla fosse spaventata dai topolini che le passavano davanti? Dio solo sa quanti ne avesse incontrati, in attesa della notte, acquattati nel tepore della paglia! Martino era confuso e stupito. Poi, d’un tratto, nello sconcerto generale, si mise a ringraziare ad alta voce il Cielo e l’asina, e a darsi dell’asino egli stesso.
“Ma come la nostra mente, alle volte, si fa ottusa da sé stessa! Sia tu benedetta, sorella asina, perché l’Onnipotente ti ha voluta suo strumento per comunicare con questo stupido, cieco uomo!”.
A queste parole, Manzanilla si calmò all’istante e i suoi umidi occhi scuri ritornarono placidi e mansueti.
“Adesso uno di voi venga qui da me!”, disse frate Martino all’indirizzo del muro da cui sbucavano fuori i roditori. Silenzio; non un suono, non un fiato, non una zampa che si muovesse.
“Su, senza paura!”, esclamò l’uomo di Dio. Dopo qualche secondo, uscì dalla fessura un topo un po’ più grande degli altri, timido e guardingo, e rimase immobile annusando l’aria verso il punto da cui era provenuta la voce di Martino.
“Dunque, tu sei il delegato prescelto. Bene, ascoltami attentamente. Voi non potete in nessun modo rimanere qui, per via dei danni che fate e delle malattie che portate. Adesso andrai dai tuoi compagni e riferirai loro che dovranno lasciare questo posto in gruppi ordinati e Manzanilla ci aiuterà nel trasloco. Vi porterà in campagna, dove il vostro rosicchiare non procurerà alcun problema ai miei fratelli e ai bambini che qui vivono”.
Il topo delegato sparì velocissimo nel muro.
“Mentre si organizzano, trovatemi casse di legno e legacci”, disse Martino rivolto agli uomini che lo guardavano impalati. “Andiamo, andiamo, che il lavoro è lungo!”. E quelli, straniti, ma abituati ai prodigi che il Padreterno compiva per tramite del frate con la scopa, ubbidirono.
E così, per buona parte del pomeriggio, chi fosse passato da lì, avrebbe potuto assistere al trasloco di roditori – dal numero non quantificabile – più organizzato di tutta la storia. Sembrava quasi di vedere un esercito disciplinato che eseguiva ordinatamente una manovra collaudata. Le casse venivano appoggiate sul pavimento, ed ecco i topolini entrarvi fino a riempirle; poi erano issate ai fianchi di Manzanilla, la quale si dirigeva zoppicando verso i campi, e lì, chinatasi, svuotava le casse del suo squittente carico, per poi ritornare al collegio e ricominciare, mentre i bambini, correndo avanti e indietro, le facevano da allegro corteo, e gli adulti increduli si guardavano stupiti e divertiti.
Qualche mese più tardi, Martino fu invitato al collegio per festeggiare i primi guadagni ottenuti dalla vendita del raccolto di camomilla; data l’occasione e la cifra raccolta, che andava oltre ogni rosea aspettativa, anche Manzanilla fu premiata con un bel cesto pieno di frutta dolce e succosa. E mentre Martino la osservava masticare con gusto, incrociando il suo sguardo umido di cui non si vede il fondo, pensò che davvero a Dio niente riusciva meglio che scrivere dritto sulle righe storte, più storte anche della zampa rotta della mite Manzanilla, a patto che noi, che siamo la sua penna, gli permettiamo di vergare l’inchiostro, senza spaventarci per quel pizzico di follia che, alle volte, pare suggerirci.