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Ecco perché la Chiesa parla di regalità sociale di Cristo e non di teocrazia

di Fabio Battiston

Caro Aldo Maria,

ho letto con attenzione la tua intervista a don Francesco Ricossa [qui] sulla regalità sociale di Cristo. Ritengo che il tema sia di fondamentale importanza per noi cattolici e vorrei porre sul tavolo una questione, credo non banale, concernente l’individuazione di una strada, di una possibile e credibile alternativa al laicismo imperante nelle nostre società. Si tratta di capire, in sostanza, se sia definibile una proposta che abbia ovviamente come fine quello dell’affermazione del concetto di regalità sociale di Cristo.

Forse sto per dire uno “sfondone” e ti chiedo quindi di aiutarmi a comprendere se sto deragliando o meno. Riflettendo su questo tema non faccio che arrivare, gira che ti rigira, alla stessa identica conclusione. Se è pur vero che la regalità di Nostro Signore Gesù Cristo deve poter essere affermata a livello globale – interessando in primis quell’umanità che, almeno, si riconosce nella fede cristiana – è altrettanto vero che nulla impedisce che tale obiettivo possa essere conseguito da singoli popoli e nazioni viste nella loro dimensione sociale, politica ed istituzionale.

Ora, l’unica strada per affermare – prima di tutto a livello locale – il concetto della regalità sociale di Gesù Cristo passa a mio parere nell’idea di costituire una vera e propria teocrazia. Sì, hai capito bene, ho detto teocrazia. Dovremmo in sostanza operare coerentemente per realizzare una via cristiana (più probabilmente cattolica) a ciò che oggi è la realtà di Stati come l’Iran in ambito islamico. Papini sosteneva che il “cattolicismo” ha sempre rappresentato la via umanamente più percorribile per essere fedeli a un cristianesimo la cui ferrea rigidità dottrinale e comportamentale avrebbe portato fatalmente ogni persona a schiantarsi contro un’oggettiva impraticabilità nell’obbedire, “totus tuus“, al messaggio cristiano. Tuttavia anche ciò che il cattolicesimo ci insegna (sul piano evangelico, dottrinale e magisteriale) troverebbe, rispetto all’obiettivo della regalità sociale di Cristo, ostacoli non banali a una sua applicazione istituzionalmente integrale.

Quanti di noi potrebbero tranquillamente affermare di essere in grado di vivere in uno stato teocraticamente cattolico senza mai correre il rischio di vedersi accusati di un peccato che sarebbe sempre equiparato a reato? Io per primo mi ritroverei in una situazione di grande pericolo. Tuttavia, quale strada se non la teocrazia (non si sa in quale modo cercata, proposta e, soprattutto, sancita) potrebbe consentire a un popolo di vivere attuando i principi di una regalità soprannaturale centrata sul Dio trinitario? E se la via non può essere quella dell’approccio teocratico, come poter visibilmente operare per affermare tale regalità?

Forse, con queste mie riflessioni ad alta voce, non ho fatto che inanellare una sciocchezza dietro l’altra, e se così fosse faccio ammenda. Vorrei però sapere da don Ricossa qual è il suo pensiero al riguardo.

*

di don Francesco Ricossa

Caro Valli,

il suo lettore e, da quel che vedo, assiduo collaboratore, solleva il problema del rapporto tra “regalità sociale di Cristo” e “teocrazia”.

Il magistero della Chiesa parla di regalità di Cristo mentre, mi pare, non utilizza mai il termine teocrazia. Il motivo c’è.

Stato e Chiesa (o come si diceva Sacerdozio e Impero) sono due società perfette (aventi cioè tutti i mezzi per realizzare i loro fini rispettivi) distinte tra loro, avendo finalità distinte: il bene comune temporale per quanto riguarda lo Stato, il bene comune sovrannaturale (gloria di Dio, salvezza delle anime) per quanto riguarda la Chiesa. Anche quando, di fatto, il capo dello Stato e quello della Chiesa coincidono – com’è il caso ad esempio del papa nello Stato ecclesiastico – i due poteri sono distinti tra loro e distinta è la legislazione civile da quella ecclesiastica, e distinta è pure dalla legge umana la legge positiva divina. La cosa è facilmente comprensibile, non solo perché, come detto, le finalità rispettive sono distinte, ma anche perché mentre la legge umana (civile o ecclesiastica) giudica solo degli atti esterni ma non di quelli interni, quella divina giudica principalmente degli atti interni, che Dio solo può conoscere. La Cristianità, quindi, non conosceva una legislazione di origine divina che guidasse anche la società temporale, come nel mosaismo veterotestamentario, ma ammetteva la distinzione tra potere civile ed ecclesiastico, legislazione civile, ecclesiastica e divina positiva.

Tuttavia, se la Chiesa ha sempre ammesso la distinzione dei poteri, non ne ha mai ammesso la separazione, anzi l’ha condannata. La separazione tra Stato e Chiesa o, come dicono i laicisti, tra lo Stato e le chiese, è il “dogma” delle moderne società, sia quando questa separazione pretende lasciare piena libertà alle chiese (e così non è) sia quando invece perseguita o tiranneggia la Chiesa. Stato e Chiesa – almeno in una società cristiana – hanno i medesimi sudditi, hanno materie miste ovvero comuni (come ad esempio il matrimonio e la famiglia), hanno il medesimo fine ultimo, che non può essere che uno solo. Se, infatti, il fine prossimo dello Stato è il bene comune temporale, quest’ultimo però è ulteriormente finalizzato, quale mezzo, al fine ultimo che è Dio. Anche solo dal punto di vista del diritto naturale, lo Stato deve riconoscere Dio e la Religione a fondamento della vita pubblica (né mai esistette Stato agnostico o peggio ateo prima della rivoluzione francese e poi di quella bolscevica) ma solo la Rivelazione, di cui la Chiesa è custode, ci assicura di chi sia il vero Dio e quale sia la vera religione, e come gli si debba pubblicamente rendere culto.

Se Chiesa e Stato non sono separabili, se potere spirituale e temporale, pur distinti, non devono essere separati, allora il rapporto tra le due società, ognuna perfetta nel proprio ordine, deve ammettere una subordinazione. Subordinazione che non può essere quella della Chiesa allo Stato (il cesaro-papismo orientale, prima greco poi russo, il ghibellinismo medioevale, l’anglicanesimo o gallicanesimo ecc., che ripetono nella Cristianità il modello pagano) nella quale il clero è cappellano di corte, ma al contrario dello Stato nei confronti della Chiesa, la quale ha pertanto un potere diretto o indiretto sulle cose temporali quando siano legate a quelle spirituali. Tale rapporto è descritto come quello che intercorre tra l’anima e il corpo o, nei medioevali, tra il sole e la luna. Se “teocrazia” o “ierocrazia” significasse questo, allora, sì, sarebbero ammissibili.

Ovviamente, stiamo parlando della costituzione ideale della società, dalla quale siamo ben lontani attualmente; anzi ne siamo agli antipodi. La crisi che viviamo coinvolge sia la Chiesa sia lo Stato, e pertanto tutta la società, e le battaglie che realisticamente si possono fare attualmente sono battaglie di retroguardia, a difesa dei principi più evidenti del solo diritto naturale. Anche il principio, seppur disatteso nella pratica, della “religione cattolica religione di Stato”, ancora proclamato non solo dallo Statuto albertino (che pure era liberale) ma anche dal vecchio concordato (che era garantito dalla Costituzione), sembra ormai lontano anni luce, e nessun partito politico, di destra, sinistra o centro, ha più nel proprio programma non solo la difesa della vera Religione, ma neppure del diritto naturale, e l’unica differenza è quella che passa tra un “più” e un “meno” nella violazione di detto diritto naturale di per sé alla portata della semplice ragione. Se poi i caporioni dei partiti politici più ostili alla Chiesa vengono lodati dall’occupante della Sede Apostolica e trattati da amici, chiunque potrà constatare la gravità della crisi che stiamo vivendo.

Gesù Cristo quindi regna più coi suoi castighi che coi suoi benefici, dato che il Mondo ha sempre più ripudiato il suo vero Re per preferirgli il “principe di questo mondo”. E di questo paghiamo ogni giorno le conseguenze. Che Dio ci aiuti, e la Sua santissima Madre, Maria Regina.

 

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