Cari amici di Duc in altum, mi ha scritto l’Organista Ambrosiano Indignato, già intervenuto altre volte nel blog. L’oggetto del suo intervento è la cerimonia di riapertura al culto di Notre-Dame a Parigi, e in particolare l’uso che è stato fatto dell’organo.
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di Organista Ambrosiano Indignato
Caro Valli,
il “risveglio” del grande organo di Notre-Dame, uno dei momenti salienti dell’evento di riapertura della cattedrale parigina del 7 dicembre scorso, mi ha suscitato più di qualche interrogativo. Direi un risveglio, ma di coscienza.
La cattedrale di Notre-Dame non è nuova a tragici sconvolgimenti, se si considera che proprio dalla sua trasformazione in Tempio della Ragione durante la feroce stagione giacobina il suo pulpito e il suo organo facilitarono – insieme alle baionette – la diffusione del nuovo verbo della rivoluzione antropocentrica e anticlericale nel resto del vecchio Continente. Claude Balbastre (1724-1799) al termine di una carriera gloriosa cambiò casacca pur di conservare il posto di organista della cattedrale trasformata in Tempio della Ragione, e durante le adunanze giacobine suonò leziose variazioni sulla Marsigliese https://www.youtube.com/watch?v=D-5tYfVfoG4
L’impiego militante dello strumento in seno alla stravolta liturgia del santuario della rivoluzione lo risparmiò dalla sorte ben più triste che toccò ad arredi e insigni reliquie, traghettandolo oltre la Restaurazione sino al rifacimento operato da Aristide Cavaillé-Coll nel 1867.
L’ottima riuscita della kermesse è sotto gli occhi di tutti, sebbene il presidente Macron non abbia avuto la presenza benedicente di Francesco a Parigi (a differenza di Napoleone che nel 1804 trascinò papa Pio VII nella restituita Notre-Dame per farsi incoronare imperatore). La regia di una manifestazione non dissimile dalla discussa apertura delle Olimpiadi parigine della scorsa estate è stata certamente ben studiata: dai discorsi di circostanza venati di cesaropapismo in una cattedrale che è apparsa come santuario nazionale di una Francia in crisi d’identità, alla sfilata dei potenti della terra sino ai discutibili paramenti e arredi liturgici. Le tinte fosforescenti del piviale indossato dall’arcivescovo Ulrich – chissà qual è il suo colore liturgico – e, ancor di più, il pastorale da mago Merlino (o il gigantesco lecca-lecca, come l’ha definito l’acuta osservazione di un amico) impiegato per percuotere le porte della cattedrale hanno fatto il paio con le improvvisazioni proposte dagli organisti per il rito del “risveglio” dello strumento.
Benché il pontificale romano e la tradizione ci consegnino un formulario di benedizione e un dialogo fra celebrante e organo che funge da irripetibile occasione catechetica per comprendere le profonde ragioni che giustificano la presenza fondamentale e insostituibile dello strumento sacro all’interno delle chiese e nelle liturgie, le risposte sonanti che dall’alto della cantoria sono piovute sui numerosi intervenuti hanno suscitato parecchie perplessità. Le improvvisazioni proposte hanno sorprendentemente spaccato la comunità non solo degli organisti francesi ma anche degli italiani, fisiologicamente affetti da una incomprensibile esterofilia e da un complesso d’inferiorità per tutto ciò che è alloctono. Prescindendo dai tecnicismi degli addetti ai lavori, nelle improvvisazioni organistiche, negli arredi liturgici e nei paramenti si scorge la chiave di lettura per interpretare una cerimonia di riapertura che è stata impietoso spettacolo di rinascita di una Chiesa schiava del mito di una perenne palingenesi. Il controverso sbiancamento delle pietre di Notre-Dame ha eliminato, insieme alle tracce dell’incendio, anche il proverbiale fumo delle candele, emblema di un’epoca della storia della religiosità spontanea e popolare che si è voluto chiudere forzatamente. Più che all’Immacolata, tanto bianco ha fatto pensare a una tabula rasa. Taglio netto con il passato, che è Tradizione e depositum fidei. Agli inizi del secolo scorso il campanile della basilica di San Marco di Venezia è stato ricostruito “dov’era, com’era” dopo il crollo, Notre-Dame no. I tempi sono cambiati.
Ecco, allora, che alle monizioni dell’arcivescovo, che per otto volte si rivolge allo strumento con la formula “Organo, strumento sacro, tu…”, l’organo risponde con rantoli impercettibili, singhiozzi e sussulti che diventano accordi ossessivi e assordanti, segno, dicono, di modernità. Ancorché perfettamente accordato, l’organo di Notre-Dame era in profondo disaccordo con quanto intimato dal celebrante nel dialogo. Il ricorso esclusivo a brani di repertorio non avrebbe sortito il medesimo effetto e, forse, avrebbe lasciato un retrogusto vagamente concertistico. Quello cui abbiamo assistito, invece, è sembrato più un saggio di performing art certamente non malriuscito, sebbene totalmente decontestualizzato. Da alcuni decenni la Francia è nota per essere caposcuola della più moderna e apprezzata corrente d’improvvisazione organistica rivelata nella pratica di un virtuosismo funambolico combinato con la conoscenza di ogni risvolto della tecnica della composizione estemporanea. Nulla da eccepire, anzi, dal momento che ogni compositore è chiamato a progredire nella propria arte per offrire al mondo qualcosa di nuovo che parli il linguaggio dell’hic et nunc nel quale l’opera d’arte è nata.
Proprio qui, però, si pone il problema, trattandosi nello specifico non di musica assoluta ma di musica asservita alla liturgia. La tradizione della Chiesa e persino i documenti conciliari in materia di musica sacra prescrivono che ogni composizione (o improvvisazione) concepita per decorare le funzioni abbia il doppio fine della glorificazione dell’Altissimo e dell’edificazione dei fedeli. Il culto divino e l’innalzamento degli animi dei fedeli sottintendono le due dimensioni che sull’altare s’incontrano: quella verticale ed eterna, che esprime il Mistero, e quella orizzontale che cerca di scrutare l’Eterno al fine di renderlo comprensibile alla sua congiuntura storica (per quanto possa aver senso lo sforzo di decifrare un Mistero che è, per definizione, umanamente imperscrutabile). Quando si ha a che fare con le cosiddette forme d’arte contemporanea si assiste, da un secolo abbondante, a uno scollamento fra l’espressione artistica profeticamente avanguardistica e una cultura di massa che fatica a recepire l’estetica dell’artista. Tuttavia se in un museo, in una galleria o in una sala di concerto tutto è lecito, in liturgia non si può dire altrettanto.
Chi è chiamato a servire il rito non può prescindere dall’autoconsapevolezza di essere portavoce dell’invocazione e dell’intercessione di un’intera assemblea di fedeli e dal confronto con una Tradizione che deve essere continuamente rinverdita e vivificata, non tradita e abbandonata. A onore del vero non si deve fare di tutta l’erba un fascio. Qualche parola di apprezzamento può essere spesa per il repertorio vocale composto sia per la celebrazione di riapertura che per la dedicazione del discutibile nuovo altare in bronzo. Memori della tradizione e delle linee guida che dovrebbero ispirare il musicista di chiesa conscio del proprio ruolo, gli autori del repertorio vocale composto ex novo hanno adottato un linguaggio musicale contemporaneo ma perfettamente assimilabile anche da parte di una platea variegata. Menzione d’onore per il Pater noster in latino, per il Te Deum e le antifone mariane gregoriane.
Durante le improvvisazioni, sui volti dei presenti, inquadrati dalla regia televisiva, s’è letto qualche segno di disagio mentre l’organo affermava d’essere strumento sacro, cantore della gloria del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo, di Maria Santissima e latore al Cielo di una supplica corale nella quale la comunità dei fedeli non si può riconoscere. In certi momenti del dialogo lo strumento non ha – metaforicamente – squarciato le volte della cattedrale per offrire un’anticipazione del gaudio beato delle schiere angeliche ma, piuttosto, ha aperto nel pavimento una voragine esalante fumi di zolfo. L’organo s’è dimostrato, in definitiva, non più strumento sacro ma solipsistico orpello arroccato sulla sua cantoria, altezzoso nella sua indifferenza sia del compito che la tradizione gli affida sia del ruolo di rappresentanza richiamato, in tempi che sembrano biblicamente remoti, da Benedetto XVI nella cerimonia di benedizione dell’organo di Ratisbona nel 2006.
Dalla passerella dei potenti della terra al piviale improponibile dell’arcivescovo Ulrich, sino al grande organo di Notre-Dame “risvegliato”, è stata offerta in mondovisione l’immagine di una ecclesiologia post-tradizionale, di una chiesa moderna (e modernista), ostinatamente orizzontale che non rinasce dalle proprie ceneri ma che clamorosamente traligna. Le improvvisazioni organistiche proposte sono state la colonna sonora perfetta per un rito che è espressione di una sensibilità antropocentrica, più che laica o anticlericale, disinteressata all’innalzamento dello sguardo al Cielo.
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Nella foto, il vescovo di Parigi mentre apre il portone di Notre-Dame indossando paramenti liturgici, disegnati dallo stilista Jean-Charles Castelbajac, che richiamano i colori massonici.