Caro Aurelio,
giorni fa, mentre ero in auto, nel traffico, ho sentito un suono dolce e trillante. Proveniva dal campanile del santuario cittadino ed era, penso, una melodia dedicata alla Vergine Maria. Ho abbassato i finestrini, lasciando entrare le note delle amate campane ambrosiane. Così per qualche istante mi sono ritrovato in paradiso e mi è dispiaciuto che il traffico a un certo punto abbia ripreso a scorrere. Volentieri sarei rimasto lì a lungo.
Ho ringraziato il buon Dio per il dono inaspettato. Ma anche san Carlo, che volle il santuario, e i sacerdoti che, sebbene sempre più anziani, lo tengono in vita. Senza dimenticare i campanari.
A volte il divino irrompe nelle nostre vite così, nel modo più imprevedibile e più semplice. E ci regala consolazione. Per tanti anni mi sono occupato delle vicende della Chiesa cattolica e oggi, anche se pensionato, continuo a farlo perché il tema mi appassiona. Inutile dire che osservare questo mondo è, per lo più, come gettare uno sguardo su un cumulo di rovine. L’analfabetismo religioso dilaga, le tradizioni vengono dimenticate, abusi liturgici e bizzarrie teologiche ci amareggiano. Ma ecco che un suono di campane ridona speranza. C’è qualcuno che non dimentica. Qualcuno che tiene accesa la fiamma. Qualcuno che, pur in mezzo a mille difficoltà, fa sì che la tradizione sia viva.
Forse l’età mi rende più sentimentale, ma non riesco a essere un apocalittico. I segni di Dio, a ben guardare, e a ben ascoltare, sono ovunque. Occorre solo rendersi disponibili. Come un rabdomante, l’uomo di fede oggi è chiamato a scoprire le falde dell’acqua pura nei terreni meno prevedibili. E puoi star certo che quest’acqua si trova sempre. Nessun terreno è completamente arido.
La Chiesa in cui sono nato e cresciuto mi ha esortato a scrutare i segni dei tempi. Il che è sicuramente doveroso. Oggi però mi sento più attratto dalla ricerca dei segni di Dio.
Quel giorno, mentre ero in auto, ho provato a immaginare che cosa sarebbe la città senza quel santuario, senza quel campanile, senza quelle campane. Tutti presi dalle incombenze di ogni giorno, forse nessuno si accorgerebbe della mancanza. Certamente, gli automobilisti fermi in coda, resi nervosi dal traffico e dai ritardi, avrebbero ben altri pensieri. Eppure, se quei tesori non ci fossero più, noi non saremmo gli stessi. Saremmo infinitamente più poveri e soli. E ci sarebbe spazio solo per una completa desolazione.
Quel giorno il suono entrato nell’abitacolo dell’auto raccontava una storia d’amore e di fedeltà. Ma era anche una raccomandazione. Diceva: “Convertitevi e credete al Vangelo”. Perché è tutto ciò che conta.
Si avvicina il Natale e giorni fa, in casa, ho fatto il presepe, utilizzando molte statuine e casette che erano parte del mio presepe di bambino. Come ogni anno, non ho disegnato un progetto. Semplicemente, ho cominciato a tirar fuori oggetti, personaggi e animali dallo scatolone e a collocarli sul ripiano, dove con carta e cartone avevo realizzato qualche collina e un avvallamento. Mi stupisce questo fatto: oggetti (le case, il ponte, il ruscello fatto di carta stagnola, il carretto, il pollaio), i personaggi (i pastori, il panettiere, la lavandaia, il caldarrostaio) e gli animali (le pecore, le galline, le oche) sono sempre gli stessi, e sempre lo stesso è il ripiano sul quale sistemo il tutto. Eppure ogni anno il presepe viene diverso.
E quest’anno la capanna è venuta proprio al centro.
Continua
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