di Paolo Gulisano
Uno dei più bei canti di Natale, Astro del ciel, definisce Colui che nasce nella grotta di Betlemme come “mite agnello, redentor”.
Tra le otto beatitudini di cui parla il Vangelo, la mitezza è una delle più significative. Fu ed è ancora la virtù dei martiri, che non muoiono gridando o maledicendo, ma pregando e perdonando. Non è che un caso che la sapienza degli antichi liturgisti della Chiesa abbia messo nel calendario, dopo la Natività del mite agnello, la festa del primo martire, il mite Stefano.
La mitezza è una beatitudine, ed è in primo luogo uno stile di vita, e quasi una condizione mentale. Dobbiamo avere un pensiero forte, ma anche un pensiero mite. La mitezza è una qualità che si apprende, mettendosi alla scuola di chi l’ha vissuta, ma anche di chi l’ha descritta. Da questo punto di vista ci sono alcuni testi che andrebbero riscoperti, proprio in occasione del Natale. Testi che toccano le corde profonde del cuore. Non deve stupire che questi testi siano favole. Il senso profondo delle fiabe è quello che indicò il grande Gilbert Chesterton: le fiabe non servono a far credere ai bambini che esistono i draghi, perché i bambini lo sanno perfettamente che essi esistono. Le fiabe insegnano ai bambini che i draghi possono essere sconfitti. Spesso, leggendo le favole, o dei bei racconti, viene da esclamare: che bello se il mondo fosse così! Ebbene, il mondo può e deve essere migliore, più buono, più bello. Il Natale è da questo punto di vista una fiaba diventata realtà, ed ecco perché molte fiabe sono pedagogiche al Bello, al Buono, al Vero, come il Cantico di Natale di Dickens o la Favola di Natale di Giovannino Guareschi, o Il piccolo principe, il capolavoro dello scrittore francese Antoine de Saint-Exupery, che fu anche aviatore, scomparso nel 1944 durante un volo di guerra. Appartenente a una famiglia di nobili origini, Antoine rimase a quattro anni orfano di padre, ma trascorse comunque un’infanzia felice, grazie alla madre, che gli trasmise l’amore a Dio e l’amore al bello.
L’ambientazione del Piccolo principe non è natalizia, ma andrebbe letta in questo periodo perché è una vera icona della mitezza e della tenerezza. Sì, un mondo migliore è possibile, perché questo mondo è stato visitato da Cristo. Un mondo mite, come i protagonisti del libro di Antoine de Saint–Exupery. La trama è nota: un pilota precipita col suo aereo nel deserto e incontra il piccolo principe che gli racconta di venire dallo spazio, e di avere compiuto un viaggio per arrivare sulla Terra, passando per sette pianeti, sui quali ha incontrato strani personaggi, che sottolineano il lato buffo e perfino ridicolo degli affanni umani. Il piccolo principe, proveniente dall’asteroide B-612, aveva bisogno di una pecora per farle brucare gli arbusti di baobab prima che crescessero troppo e soffocassero il suo pianeta. Alla fine giunge sulla Terra e si mette alla ricerca degli uomini. Si imbatte in una volpe che desidera essere addomesticata, per instaurare un’amicizia con il piccolo principe di cui apprezza il modo in cui si prende cura della sua rosa. La cura per la sua rosa l’ha fatto soffrire molto, perché spesso ha mostrato un carattere difficile. Ora che è lontano, egli scopre piano piano che le ha voluto bene e che anche lei gliene voleva, ma che non si capivano. Il principe, insieme al pilota, va alla ricerca di un pozzo ove attingere acqua. Qui il principe ritrova un serpente, che in un incontro precedente gli aveva confidato di avere la capacità di portare chiunque molto lontano. Il principe bambino ha nostalgia di casa, del suo pianeta. Consapevole di aver “addomesticato” il pilota, come lui stesso dice, sa di dargli un dispiacere nell’andare via, e lo invita a guardare il cielo e a ricordarsi di lui ogni qual volta osserverà le stelle, che per lui avrebbero riso, sapendo che una di quelle era il pianeta del piccolo principe. Poi il serpente lo morde alla caviglia e il piccolo principe ricade esanime sulla sabbia. L’indomani il pilota non riesce a ritrovare il corpo del bambino, così immagina che il piccolo principe sia riuscito a raggiungere il suo pianeta e a prendersi cura della sua amata rosa.
Il piccolo principe è il ritratto della persona mite. Ci rivela che la felicità nasce dalla pazienza, dal dono e dalla relazione. Dice la volpe: “Se tu vieni alle quattro, dalle tre io comincerò a essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore”.
Il piccolo principe è un mite che spesso si commuove e piange perché in grado di sentire quello che l’altro sente. È qualcosa che viene definita empatia, che consiste nel comprendere una persona adottando il suo punto di vista invece del proprio: capacità di ascoltare, comprendere, condividere. Tutto ciò è parte di un pensiero mite. Così come il prendersi cura. Il principe è fedele alla sua piccola e amata rosa, con tutti i suoi difetti e se ne prende cura. Con la sua testimonianza spinge gli altri a farlo. Scrive il pilota al capitolo XXIV: “Ecco ciò che mi commuove di più in questo piccolo principe addormentato: è la sua fedeltà a un fiore, è l’immagine di una rosa che risplende in lui come la fiamma di una lampada, anche quando dorme”.
Il principe mite possiede un’altra fondamentale qualità: è paziente, non ha fretta, sa guardare, sa gustare le cose belle con occhi pieni di stupore. Nel capitolo XXII dialoga con un controllore ferroviario: “Hanno tutti fretta, che cosa cercano? Lo stesso macchinista lo ignora, disse il controllore. Un secondo rapido illuminato sfrecciò. Ritornano di già? Non erano contenti là dove stavano? domandò il piccolo principe. Non si è mai contenti dove si sta. Dormono là dentro, o sbadigliano tutt’al più. Solamente i bambini schiacciano il naso contro i vetri. Quelli sì, che sono fortunati”.
Il piccolo principe ci mostra un modo diverso di vivere e relazionarci col mondo, con grande naturalezza.
Particolarmente toccante è il capitolo finale, in cui si racconta il momento difficile in cui il principe si lascia mordere dal serpente. Il mite – come Cristo – si lascia sopraffare non perché codardo, pauroso, rassegnato. Il mite si sacrifica per un bene più grande. Il principe è deciso a tornare a custodire la sua rosa, consapevole di dover lasciare qualcosa e di dover soffrire. In silenzio. Non dimenticandosi di donare in ricordo al pilota la risata serena e gioiosa delle stelle.
La mitezza è difficile da vivere, non è un percorso agevole, ma ne vale la pena, perché ne va della propria anima.
Un altro grande scrittore francese, Charles Peguy, aveva scritto: “C’è qualcosa di peggio che avere un’anima malvagia: è avere un’anima assuefatta”. Contro la consuetudine, contro l’assuefazione dell’anima, contro la malvagità che ne è la conseguenza, contro ogni accidia spirituale, il rimedio più efficace è la mitezza con tutto il suo corollario di attenzione all’altro, tenerezza, compassione.