Santi e animali / Serafino di Sarov e l’orso Misha
Il vero fine della vita cristiana consiste nell’acquisire la grazia dello Spirito Santo
Serafim di Sarov, Colloquio con Motovilov
di Michela Di Mieri
Battezzato con il nome di Prochor, Serafino di Sarov, uno dei più grandi santi della chiesa ortodossa russa, nacque a Kursk nel giugno del 1759.
Ordinato ieromonaco nel monastero di Sarov, dopo anni passati nel più assoluto silenzio e isolamento nel bosco adiacente, ebbe una visione: la Vergine gli indicò che era giunto il momento di mettere al servizio degli uomini la sua intimità con le cose di Dio. Da quel momento e fino alla fine della sua vita accolse una folla infinita di persone e fu guida spirituale del monastero femminile di Diveevo, da lui stesso fondato.
Taumaturgo, capace di chiaroveggenza e di leggere nei cuori delle persone, morì il 2 gennaio del 1833. I monaci Pavel e Ioann trovarono il suo corpo inginocchiato davanti all’inseparabile icona della Madre di Dio “gioia di tutte le gioie”, con le braccia incrociate sul petto.
Fu canonizzato dalla chiesa ortodossa russa nel 1903, e viene ricordato il 1 agosto e il 15 gennaio.
Tra le sue memorabilia, si annovera la grande carità che provava per tutti gli abitanti del bosco, che gli facevano compagnia durante i suoi anni di eremitaggio, tra cui Misha, un enorme orso che il santo starec aveva reso mite come un agnello.
Non appongo il “san” davanti al suo nome per conformità alla Chiesa cattolica, di cui faccio parte, in quanto padre Serafino è canonizzato solamente per la chiesa ortodossa. Nondimeno, a livello personale, sono profondamente devota al grande starec, che in più di un’occasione ha interceduto per me presso l’Onnipotente.
*
Matjuska Plescejeva entrò nella cella in cui aveva vissuto il santo starec, mentre Efim Vasiljev, un contadino che gli era stato molto legato, stava dipingendo un ritratto dell’amato padre Serafim.
La monaca si era recata al monastero di Sarov da Diveevo per prendere visione dei progressi del dipinto, affidato al buon contadino per via del suo talento.
“Efim, dipingete il padre Serafim con accanto l’orso”.
Il contadino si girò con aria interrogativa a guardare la monaca, rimasta stupita essa per prima per le parole che aveva pronunciato, come per un ordine di cui neppure lei si era resa conto.
“Batjuska, di quale orso parlate? Non mi avete mai fatto questa richiesta. Come mai proprio ora? È forse successo qualcosa di cui non sono a conoscenza?”
In quel momento, la matjuska si accorse che proprio quel giorno erano passati esattamente undici anni da quando il padre Serafim aveva lasciato sulla terra la polvere, come era solito definire il destino del corpo dopo la sua morte. “Tu non racconterai quanto hai visto per undici anni esatti dal giorno della mia morte. Quando verrà il momento, il Signore ti indicherà la persona alla quale rivelerai ciò di cui sei stata testimone”. Queste erano state le parole dello starec in quel lontano pomeriggio di undici anni prima, quando lei era una giovane novizia alle prese con i primi assalti del nemico.
Il giorno e il momento erano arrivati di sorpresa, e la persona indicata dal cielo era lì, di fronte a lei.
“Sedete, Efim, vi devo raccontare qualcosa, perché siete voi il destinatario di un messaggio che il padre ha tenuto in serbo per voi da undici anni”. Il contadino appoggiò il pennello e la tavolozza, si pulì alla meglio le mani, versò una tazza di tè per sé e per la matjuska, si sedette sulla sedia che fu dello starec e attese, con quel suo sguardo pulito di bambino, quella inaspettata sorpresa.
Era il 2 di gennaio, e fuori la temperatura sfiorava i meno venti gradi. L’acqua bollente nel samovar contribuiva ad appannare il vetro della finestra. Portandosi la tazza alle labbra, la monaca guardò fuori, e lo sguardo indugiò sul bosco di betulle che circondava il monastero. “Misha… sarà sicuramente morto, oramai”, si disse. Non aveva più pensato a lui per tutti quei lunghi undici anni, come se il padre le avesse tolto il ricordo per aiutarla a conservare meglio il segreto.
Stava salendo la bruma dal terreno, leggera, ovattante, avvolgente, ed il grande silenzio dell’inverno si preparava al ritorno della notte. Gli animali selvatici, predatori e prede, erano pronti a ricominciare l’usato, indifferente ciclo della sopravvivenza, che ha nella notte il suo corifeo.
“Il padre Serafim nutriva ogni notte gli animali del bosco, sapete, Efim? Misha, il grande orso, era il primo ad arrivare al “piccolo eremitaggio”, la capanna sulle rive della Sarovka che si era costruito con le sue mani, ai piedi della collina. Poco prima dello scoccare della mezzanotte, usciva dal folto della foresta e si andava ad accucciare sulla soglia, aspettando paziente che il padre terminasse la grande preghiera prevista dalla Regola di san Pacomio. Egli cantava di fronte all’icona gioia di tutte le gioie, mentre fuori, come richiamati dalla salmodia, andavano radunandosi lepri e volpi, lupi e orsi, ma anche tassi, topi, e persino rettili, come lucertole e serpi. La luce dell’unica candela tremolava dalla piccola finestra, aiutando la luna a rischiarare quell’incredibile insieme di creature, dimentiche che la loro natura le aveva rese nemiche, di fianco l’una all’altra: il lupo seduto di fianco alla lepre, la volpe di fianco al topo. A mezzanotte la grande preghiera era terminata e, dopo poco, si apriva la porta: nella sua veste bianca e lunga, avvolto nel mantello, compariva il padre con un cestino pieno di pane. Guardava gli animali con quei suoi luminosi occhi azzurri, talmente luminosi che si faticava a sostenerne la vista, e sorrideva loro, mentre distribuiva il pane. Che non finiva mai, per quanto numerosi fossero. Ce n’era sempre a sufficienza, e il cestino rimaneva vuoto solo quando tutti erano sfamati. Allora il padre si accoccolava al tepore del corpo di Misha, i piedi sotto alla sua pancia calda, e vegliava con le braccia incrociate sul petto fino alle prime luci dell’aurora, quando gli animali tornavano a nascondersi nel fitto del bosco. Tutti, tranne Misha, che non si allontanava mai troppo dalla capanna. Spariva per poco, e ritornava che il sole ancora non era alto, portando tra le zampe un favo di miele come colazione per sé e matjuska”.
La matjuska smise di raccontare. Il silenzio avvolse di nuovo la stanza. Intorno era ormai buio, ed Efim si alzò e accese una candela. Vide gli occhi della monaca assorti in un tempo lontano, quando il padre Serafim le aveva raccontato tutto questo, quel giorno in cui l’aveva fatta chiamare, tanti anni prima, dal monastero di Deveevo, alla sua capanna.
Ella, da qualche tempo, non riusciva più a svolgere con dedizione l’obbedienza che lo starec le aveva assegnato, ossia la preparazione dei pasti per le consorelle. La giovane monaca era distratta e svogliata, come assente e svagata, perché dentro le si agitavano voci che la richiamavano al mondo, allettante nelle sue promesse, che ne invaghivano i sensi e l’immaginazione. Le sorelle più anziane ne avevano parlato col padre Serafim, che l’aveva voluta accanto a sé nel “piccolo eremitaggio”.
Lei era molto spaventata all’idea di camminare per almeno dieci verste da sola nel folto del bosco, ma lui l’aveva rassicurata: se avesse recitato per tutto il tragitto la preghiera di Gesù, non le sarebbe capitato nulla di male. Stringendo il crocifisso nelle mani, aveva fatto così. Sentiva innumerevoli occhi furtivi e veloci che si accorgevano del suo passaggio, percepiva le narici che si allargavano a decifrare gli odori del suo corpo e del suo timore, sapeva che il silenzio che la circondava nascondeva cuori che battevano piano per non farsi sentire.
Era finalmente giunta davanti alla radura in cui sorgeva la capanna del padre. Con sollievo, la vide, con il suo piccolo portico e l’orto ben curato sul retro. Cercò lo starec con gli occhi ed eccolo là, che stava spaccando la legna, come ogni giorno.
Mosse un passo verso di lui, quando gridò piena di terrore: “Attento batjuska!”. Un grosso orso, il più grosso che avesse mai visto, era appena uscito da dietro agli alberi ed era alle spalle del padre, talmente vicino che poteva toccarlo allungando una zampa. All’udire l’urlo spaventato, il plantigrado si inquietò, levandosi in piedi ed emettendo un barrito orripilante. Padre Serafim lo tranquillizzò e quello, subito, si calmò e si mise seduto davanti al tronco.
“Lui è Misha. Viene a trovarmi ogni giorno ed ogni notte. Mi fa compagnia nella solitudine della foresta, mi scalda il corpo quando il freddo si fa troppo rigido, mangiamo insieme il miele selvatico che mi porta lui e dividiamo il pane che gli do io”, disse lo starec alla giovane. Poi, preso del pane dalla tasca, iniziò a darne dei pezzetti all’orso. Quindi, sorridendole eloquente, le porse del pane. Lei si avvicinò con titubanza. Misha la guardava e i suoi occhi erano laghi calmi e profondi. La mano all’inizio tremante si fece sempre più sicura e la paura si trasformava in tenerezza, e la tenerezza in affetto. La monaca si ritrovò a sorridere commossa e incredula per quanto stava vivendo.
Il giorno era passato veloce. La giovane credeva che lo starec l’avrebbe sgridata, interrogata; invece, non parlò per nulla dell’argomento. Lei lo aiutò a raccogliere le patate dall’orto e a portare nella capanna la legna, e lui le raccontò della sua vita di lavoro e preghiera nel bosco, delle notti in compagnia degli animali che lo popolavano e di come il pane non fosse mai mancato. Infine, fatti venire dei contadini del monastero per accompagnarla a Deveevo, la benedì e la congedò.
Prima di andarsene, la giovane volle salutare il grande orso, che era rimasto con loro tutto il giorno. E d’un tratto, come prendendo coscienza di un pericolo, esclamò: “Batjuska, non voglio che qualcuno faccia del male a Misha. Temo che le sorelle non mi crederanno e che potrà succedere qualcosa di brutto”.
“Stai tranquilla, non accadrà nulla. Tu, infatti, non racconterai a nessuno ciò che hai visto e conosciuto oggi. Quando saranno trascorsi undici anni dalla mia morte, allora Dio ti indicherà una persona a cui ne parlerai. Fino ad allora, custodirai questa giornata come un segreto”.
Così le aveva risposto il padre, e così era stato.
La candela si era consumata quasi del tutto. Solo il pallido azzurro della fiamma morente rischiarava fioco un silenzio del quale ognuno aveva bisogno.
Efim sapeva bene quanto il padre amasse i bambini e la loro compagnia, e che a loro parlava il linguaggio semplice della verità che solo gli occhi puliti come i loro potevano vedere. Quante volte il padre gli aveva detto che anche lui aveva mantenuto quello stesso sguardo, nonostante le tante primavere che gli gravavano le spalle. All’Efim bambino il padre aveva preparato quel regalo rimasto a compiersi nel futuro per tanti anni. Ed era grato al buio, che impediva alla matjuska di vedere le lacrime che gli rigavano le guance.
Matjuska Plescejeva, invece, pur nel buio, aveva chiuso gli occhi per poter vedere meglio la luce che da quel giorno aveva accompagnato la sua vita. Misha e la sua docilità, i racconti del bosco, il sorriso e lo sguardo azzurro dello starec. Il luccichio del mondo aveva smesso di brillare di fronte alla radiosità di cui godono le anime che entrano a far parte della stirpe di Dio.
La campana del monastero suonò il vespro. Efim si alzò e a tentoni accese una nuova candela. Guardò con gli occhi ancora umidi il ritratto del padre e sorrise. “Matjuska –disse – andiamo a riposare, ora. Domani avrò bisogno di voi. Voi che l’avete visto, e avete visto il padre insieme a lui, dovrete ben guidarmi mentre dipingo Misha”.
Glossario
Versta: unità di misura utilizzata nell’impero russo, corrisponde a 1066,781 m.
Starec: anziano monaco con funzioni di guide spirituali.
Ieromonaco: monaco sacerdote.
Batjuska e matjuska: padre e madre.