Lettera a “Duc in altum” / Stemma, mascotte, “porta santa” di Rebibbia. Così la neo-chiesa utilizza il giubileo

di Salvatore Scaglia

Caro Valli,

qualche riflessione in merito all’anno santo da poco aperto.

Premetto che non intendo allontanare nessuno dalla grazia, dono che il Signore di continuo elargisce all’uomo, in modo ordinario mediante la sua Chiesa – una santa cattolica e apostolica – e in modo straordinario attraverso sentieri che solo a Lui sono manifesti: “I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie” (Isaia 55, 8). Non stigmatizzo, perciò, i molti che, con sincerità e in buona fede, attingeranno all’anno giubilare che, se rettamente inteso, comunque sospinge i fedeli verso i sacramenti della riconciliazione e dell’Eucarestia, essenziali per la salvezza eterna.

Voglio tuttavia soffermarmi su taluni aspetti di questo giubileo che, lungi dall’essere meramente simbolici (in ogni caso si sa quanto i simboli siano importanti), dicono tanto. Ne scelgo tre: lo stemma con il motto Pellegrini di speranza, la mascotte e l’apertura della cosiddetta porta santa nel carcere di Rebibbia.

Nello stemma non si possono ignorare, anzitutto, i colori dell’immagine che occupa la maggior parte del campo: i pellegrini, da sinistra a destra, in blu, verde, giallo e rosso. Ictu oculi emerge una singolare – ma non tanto, come dirò appresso – quasi coincidenza coi colori della bandiera LGBT, composta, in sequenza, proprio dal blu, dal verde, dal giallo e dal rosso, benché tra il giallo e il rosso sia frapposto l’arancione.

L’identità assoluta tra stemma giubilare e bandiera LGBT sarebbe stata davvero troppo, specie se si considera il tratto di questi anni bergogliani: la continua mescolanza di vero e falso, di buono e menzognero, di virtuoso e peccaminoso, secondo la tecnica della confusione, ma anche secondo una transizione, vieppiù marcata, verso un’altra chiesa che è già ma non ancora del tutto; che è evidente per chiunque abbia orecchie per sentire e occhi per vedere, mentre invece appare in continuità indiscutibile con la Chiesa cattolica per chi – ahinoi i più – è distratto o indifferente o mediaticamente manipolato o non avvezzo alla ricerca della verità.

Peraltro, che la quasi coincidenza cromatica non sia un’interpretazione malevola è indicato dal fatto che nell’ambito del giubileo era stato, con gran clamore, previsto un evento particolare dedicato proprio alla cosiddetta comunità LGBT e inserito nel calendario ufficiale dell’anno santo alla data del 6 settembre 2025, quando si sarebbe dovuto tenere – col parere favorevole del presidente della Cei, cardinal Zuppi – “un momento di spiritualità speciale” sotto il titolo Chiesa, casa per tutti, cristiani Lgbt+ e altre frontiere esistenziali. Evento non cancellato, ma, ad avviso del Dicastero per l’evangelizzazione, “solo in stand-by”, poiché si attendono “informazioni importanti” come, a detta di un’altra fonte della stessa organizzazione vaticana, “il numero dei partecipanti e dettagli sull’evento in sé”

La menzionata quasi identità cromatica, dunque, non è del tutto singolare, a fortiori, se si ricordano le benedizioni “pastorali” alle cosiddette coppie omosessuali ammesse dal documento Fiducia supplicans.

Coerenza da una parte, quindi, ma contraddizioni dall’altra. L’asserita “Chiesa, casa per tutti, cristiani Lgbt+ e altre frontiere esistenziali” è infatti la prima a escludere i dottrinalmente “rigidi” (J. M. Bergoglio), rapidamente emarginati, rimossi, scomunicati; a marchiare chi si pone più che legittime domande come affetto da “negazionismo suicida” (idem) – se si tratta di virus e vaccini Covid – ovvero “stupido” (idem) se nega o critica le connessioni tra attività antropica e cosiddetto cambiamento climatico. Viene, dunque, almeno qualche dubbio circa la realtà effettuale, la verità di siffatta “Chiesa, casa per tutti”.

Forse è “casa per tutti”, per “todos todos todos” (idem) quelli che accettano o, peggio, desiderano questa sua piega mondana, politicheggiante, ideologica e avulsa dalla fede. Forse lo è per “todos todos todos” quelli che si genuflettono non al divino e al perenne che la Chiesa deve sempre riflettere, ma all’umano-transeunte che essa deve invece evitare, in nome della “grazia di Dio” che “ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani” (Lettera a Tito 2, 11 e 12).

Il secondo elemento su cui mi tratterrò è la mascotte del giubileo. Il suo autore, Simone Legno, cattolico ma non praticante (sic!), ha voluto – dice – “svecchiare l’idea del Vaticano”. “Credo – ha dichiarato – cercassero un’idea meno seriosa”. Legno, che ha collaborato con una linea di sex toys, precisa che nella sua creazione della mascotte dal nome Luce non ha ricevuto “nessuna ingerenza” da parte del Vaticano

https://www.ilfattoquotidiano.it/2024/11/05/giubileo-sex-toys-vaticano-luce mascotte/7755487/

Ancora una volta, dunque, via libera all’inclusione (almeno nei confronti di alcuni, quelli graditi), quale slogan principale della neo-chiesa bergogliana: non si condiziona un disegnatore cattolico ma non praticante che dia un’immagine meno seriosa della Chiesa e del Vaticano e che, perché no, abbia pure concorso all’ideazione di sex toys, formula peraltro ipocritamente vereconda in un’epoca che da tempo misconosce il senso del pudore.

Quanto si desume da questa mascotte è, insomma, un’ulteriore azione di demolizione del divino e del sacro che v’è nella Chiesa, perché appunto troppo “serioso”, antiquato e dunque da “svecchiare”. Se poi a svecchiare è pure un disegnatore di sex toys il risultato è completo e, ancora una volta, coerente: oggi infatti si incarica Legno come ieri si è nominato “Tucho” Fernández alla guida del Dicastero per la dottrina della fede benché autore – o proprio perché autore – di pubblicazioni definite da taluni porno-teologiche.

Questa neo-chiesa, pertanto, sarà agli occhi del mondo moderna, accattivante e aperta anche sessualmente. E non importa che una mascotte non abbia molto a che spartire con un giubileo, un vero giubileo, e anzi concorra a renderlo ridicolo, grottesco. È proprio questa, purtroppo e da anni, la missione bergogliana: la regressione ecclesiale, fino alla dissacrazione.

Il terzo e ultimo aspetto che prenderò in esame è la condotta tenuta dallo stesso Bergoglio nell’aprire la Porta Santa in Vaticano e la porta santa – che scrivo volutamente in minuscolo – nel carcere di Rebibbia. La prima, il 24 dicembre, è stata da lui aperta in carrozzina, seduto; la seconda, due giorni dopo, in piedi. È casuale questa differenza, per certi versi contrapposta all’analogia, sopra vista, tra lo stemma giubilare e la bandiera LGBT? Non credo, atteso che Bergoglio, molto poco pontefice e parecchio politico, ha mostrato in questi anni di sapere bene come agire e come non agire. La porta santa nel penitenziario di Rebibbia è una porta umana. Umana in quanto sua creazione; umana perché oltre quella porta vi è un’umanità sofferente per una pena che sta scontando; umana perché non ha alcun riferimento a Cristo, che è invece simboleggiato dalla Porta Santa in San Pietro, peraltro basilica in cui ha sede la Cattedra petrina. È la Porta di Cristo che si deve attraversare per essere salvati, insegnerebbe Pietro.

Orbene, davanti alla vera Porta Santa, in Vaticano, Bergoglio si è presentato seduto per abbassare, e dissacrare, anche questa; davanti alla finta porta santa di Rebibbia si è invece presentato in piedi per innalzarla, per elevarla, quasi per divinizzarla, se si considera, ad esempio, che noi fedeli durante la Messa ascoltiamo proprio in piedi, in segno di profonda riverenza, il Vangelo, la Parola del Signore stesso. Quel che intendo sottolineare è la sottigliezza di siffatta operazione. Infatti essa colpisce, nell’osservatore, non tanto la sfera razionale, della consapevolezza, quanto la sfera subliminale, dell’inconscio. Pochi invero si soffermeranno sulla prospettata differenza – che magari ricondurranno alle condizioni dell’anziano Francesco – e soprattutto sui messaggi profondi comunicati.

Quest’astuta forma di manipolazione, che avrà riscontro in moltissimi che lo difenderanno e acclameranno anche per quest’ultimo gesto, si inserisce in un complesso, più articolato e che procede da anni, di azioni di decostruzione della Chiesa una santa cattolica e apostolica – coi significati assai precisi che essa ha non solo nel Credo da noi professato, ma anche nel  bimillenario vissuto ecclesiale – e di parallela costruzione della neo-chiesa: personale, perché fondata sull’autocrazia di Bergoglio e non sulla persona di Cristo; erronea, perché genuflessa al mundus con le sue voglie, attivate da affari e ideologia, tra cui la credenza che saremo salvati da ambiente, tecnica, scienza (o pseudo-tale) e nuove visioni dell’uomo; una neo-chiesa in cui il Divino è abbassato e dissacrato e l’umano è innalzato al rango divino.

Se questa è la dimensione nella quale si muovono i “Pellegrini di speranza” siamo di fronte, ahinoi, a un falso giubileo di una falsa speranza. Del tutto difforme dalla “beata speranza” e dalla “manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo”, che “ha dato sé stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formare per sé un popolo puro che gli appartenga, pieno di zelo per le opere buone” (Lettera a Tito 2, 13 e 14).

 

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