di Fabio Battiston
Centoquarantaquattro anni fa, il 9 gennaio 1881, nasceva a Firenze Giovanni Papini. Parliamo di uno dei massimi esponenti della cultura italiana, di un fervente cattolico e, al tempo stesso, di una delle figure più reiette e crudelmente gettate nell’oblio dallo scenario intellettuale e artistico italiano che impose la propria ignobile dittatura pseudo-culturale nel secondo dopoguerra. Già, perché Papini non avrebbe mai potuto essere ascritto né nell’intellighenzia di stampo marxista e social-comunista né, tantomeno, in quello sterminato esercito di voltagabbana – fatto di scrittori, critici, cineasti, attori, poeti e artisti d’ogni sorta – che divennero dopo l’otto settembre 1943 l’emblema resistenziale (e istituzionale) di quell’antifascismo da burletta purtroppo ancora imperante ai nostri giorni.
Ma con Giovanni Papini, per fortuna, l’operazione di eliminazione sistematica della sua figura e delle sue opere dalla cultura italiana non è riuscita; direi anzi che è miseramente fallita. Questo straordinario personaggio, a un tempo scrittore, critico (ferocissimo), giornalista, poeta e animatore di uno dei più fecondi periodi della realtà culturale italiana – quello che abbraccia, soprattutto, il primo quarto del secolo scorso – dovrebbe poter rappresentare anche oggi una figura cui fare solido riferimento; un esempio specie per le giovani generazioni che però, nella stragrande maggioranza, nemmeno sanno chi fosse.
Non è certo il sottoscritto che può permettersi di analizzare e presentare il pensiero di un uomo di tale levatura, né ciò potrebbe essere l’obiettivo di un contributo forzatamente breve come questo. D’altra parte, e per fortuna, è oggi disponibile una finalmente serena bibliografia in grado di farci entrare nell’universo papiniano: settantacinque anni di vita ben spesa, tra battaglie culturali, anticonformismo intellettuale, ricerca costante del significato vero di quell’arte spesso nascosta nella poesia, nella letteratura e nella pittura al di là di regole e dogmi laici imposti da un mondo culturale dominato dai “sacerdoti” istituzionali del sapere. Quest’atteggiamento, mai velleitario ma sempre seriamente motivato e documentato, permetteva a un ancor giovane Papini di riversare la sua critica feroce verso gli intoccabili del suo tempo come era, ad esempio, Benedetto Croce. Credo che lo strumento più utile per conoscere questo animale visceralmente fiorentino (nei suoi pregi e difetti) siano, più che i saggi critici, i suoi libri. Opere mai banali che affrontano trasversalmente i più diversi campi della cultura umanistica, non solo italiana, e che spesso divengono lo strumento per consentire all’autore – direttamente o indirettamente – di rappresentare tutto se stesso senza remore o pudori intellettuali. Si può dire come in molti libri di Papini emerga forte un senso autobiografico; egli ci narra – immergendosi ora nella poesia, ora nella politica, nella critica o nella filosofia – il suo essere, la sua vita e i suoi cambiamenti alla costante ricerca di una verità. E a quarant’anni questa ricerca lo condurrà alla conversione e a quella Verità che racchiude tutte le altre; un passaggio netto e definitivo alla fede cattolica che segnerà la sua esistenza, anche in campo letterario, sino alla fine.
I suoi libri, quindi. Una produzione estremamente vasta, arricchita dai contributi che lo videro protagonista nella grande stagione delle riviste letterarie di inizio Novecento: La voce, il Leonardo e Lacerba. E poi carteggi ed epistolari con i più importanti esponenti della cultura e dell’arte nazionale; da Prezzolini a Ungaretti, da Soffici a Palazzeschi, tanto per fare qualche nome. Vallecchi il suo editore; e a questo proposito consiglio a chi fosse interessato alla creazione di una piccola biblioteca papiniana di cercare i testi di quell’epoca (parliamo di opere stampate, in particolare, negli anni Venti). Se ne possono trovare nelle bancarelle di libri usati o nelle sempre più rare biblioteche antiquarie; i prezzi, incredibilmente ma non tanto, sono in genere piuttosto bassi. Leggere e sfogliare quelle pagine, sentire l’odore della carta ingiallita dal tempo, ammirare quelle copertine marmorizzate è come immergersi nella biblioteca di una casa di inizio ventesimo secolo; quella stessa casa in cui un gruppo di giovani futuristi immaginavano il loro avvenire tra idee, sogni, speranze e contraddizioni. È in questo scenario – e nei traumi che lo segnarono, come la prima guerra mondiale – che l’evoluzione di Giovanni Papini sbocciò infine nella conversione, un evento praticamente inconcepibile per chi, come lui, fu considerato uno dei più acerrimi nemici della Chiesa, del cattolicismo e del clericalismo. Il suo Storia di Cristo (1921) fu la prima di una serie di opere a carattere religioso. In essa emerge il medesimo stile del Papini sino a quel momento conosciuto nelle sue opere “laiche” ma, stavolta, declinato nella grande esaltazione della figura e del messaggio del Verbo incarnato. Nella reale sofferenza e rabbia di un credente di fronte a quel martirio. Nella sua forza per rendere esplicito e gridare, ad un’umanità sorda, il senso salvifico di quel sacrifico. Molto ancora si potrebbe dire e scrivere sul rapporto tra Papini e la fede, sulla relazione non sempre facile con una parte del mondo cattolico e le sue istituzioni; ma sarebbe esercizio al di fuori dell’obiettivo di questo breve contributo. In queste poche righe ho solo cercato di offrire qualche elemento per spingere alla scoperta di quest’uomo, per avvicinarsi alle sue opere, esplorare la realtà di una persona che ha percorso una strada simile a quella che molti tra noi stanno ora affrontando. Un viaggio alla costante e spesso sofferta ricerca del senso vero e ultimo dell’esistenza. Egli l’ha trovato.