Cronache dalla grotta / Il Signore in noi
di Rita Bettaglio
Dice il salmo: “Se il Signore non fosse stato con noi quando uomini ci assalirono”. Così la traduzione del 1974: è quella della mia giovinezza, quella che ho sempre in mente. La 2008, invece, traduce: “Se il Signore non fosse stato per noi”, preferendo, forse, sottolineare il favore divino.
Nella grotta vige tassativamente la Vulgata e il salmo 123 (124) recita così: Nisi quia Dominus erat in nobis. Che dire? In nobis è proprio uno stato in luogo con un inconfondibile ablativo. Non voglio incamminarmi in diatribe sulle traduzioni bibliche, Dio me ne scampi e liberi. Però…
Ringraziando il Signore, sto in una grotta, come dire, sui iuris, e perciò qui comanda san Girolamo.
È importante per me che il Signore sia in noi, proprio dentro. Per noi cristiani è ontologico, ma è sempre d’uopo farne memoria: Dio ha impresso il suo sigillo al momento del battesimo e non lo cancellerà mai.
Nella grotta è inverno e, tautologico, fa freddo assai. Fuori un rovaio prepotente la fa da padrone. I panni stesi si dibattono come anime imbrigliate che vorrebbero prendere il volo, ma ci sono le mollette che, per quanto piccola cosa e quasi trascurabile, le trattengono, strigliandole come delle buone madri.
Dice il Capitolo della Compieta monastica: Tu autem in nobis es, Domine (Ger 14,9). Ma tu sei in noi, Signore. In noi: tra di noi, viene tradotto, ma anche dentro di noi. La presenza del Signore è tra gli uomini riuniti nel suo nome: all’esterno e all’interno di tutti e di ognuno. Come dire: pervasivo all’ennesima potenza, onnipresente.
Mi ha sempre stupito (e un po’ angosciato, specie da ragazzina) quel salmo secondo cui non c’è posto dove non giungano la presenza e l’occhio del Signore. Quando ero piccola, illo tempore, i negozi la domenica erano rigorosamente chiusi (siamo sopravvissuti benissimo): da me era aperta solo una latteria che si chiamava Angelo, dal nome del proprietario. Lì c’era un cartello ammonitore: “Non rubare. Anche se Angelo non ti vede, Dio ti vede e lo dice subito ad Angelo”. Teologia popolare che ancora resisteva negli anni Settanta.
L’onnipresenza di Dio… Ce la dimentichiamo sovente e, se la ricordiamo, lo facciamo con quell’oscuro brivido del malandrino che teme di essere preso con le mani nel sacco. Non con la gratitudine di chi sa di essere continuamente negli occhi premurosi della Provvidenza. Quando una mamma stravede per il figlio (cioè sempre) dice: “Mi scappa dagli occhi”, cioè l’amore al vederlo è così grande che gli occhi non lo possono contenere. Così Dio. Ma noi non ce ne accorgiamo, confusi da mille eidola, idoli, fantasmi, illusioni.
Stamani ho letto, come ogni giorno, un breve brano della Regola di san Benedetto. In monastero lo fa l’abate o la badessa, ogni giorno, in capitolo, la sala, appunto, dove quotidianamente si legge un capitolo della Regola. Leggo il commento di dom Guillaume, un abate trappista contemporaneo: “L’abate come il monaco non deve dimenticare che la vita monastica ha come fine essenziale di condurci alla liberazione, alla libertà interiore. Questa libertà si ottiene con la liberazione dalla paura, dalla menzogna, dalle false apparenze, con la liberazione da tutto ciò che, coscientemente o no, ci impedisce di realizzare questo luminoso destino a cui Dio ci invita”. Touchè. Questo vale dentro e fuori la grotta, in una vita monastica ufficiale o nascosta, in ogni vita cristiana.
Ci soccorre l’inno delle lodi della domenica:
Surgámus ergo strénue, Gallus jacéntes éxcitat, Et somnoléntos íncrepat, Gallus negántes árguit.
Sorgiamo dunque con decisione, il gallo risveglia chi giace e sgrida i sonnolenti, il gallo rimprovera chi rinnega.
Come faceva sant’Ambrogio a conoscermi tanto bene? Mah! Su questo gallo torneremo la prossima volta. Intanto, ascoltiamolo!
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