«La mia vita si può riassumere così: io sono stato soldato per educazione, monaco per scelta, vescovo per dovere»
di Michela Di Mieri
Martino, futuro vescovo santo di Tours, nacque nel 316 a Sabaria, in Pannonia, odierna Ungheria, da una ricca famiglia pagana. Il padre, tribuno della plebe e ufficiale dell’esercito, secondo l’usanza, avviò alla carriera militare il figlio, che, arruolato come eques, prestò servizio nelle Gallie, sotto gli imperatori Costanzo e Giuliano, detto l’Apostata. In un freddo novembre, ad Amiens, sognerà Cristo che gli rivelerà essere il povero a cui aveva donato metà del mantello nel celeberrimo episodio, in seguito al quale decise di lasciare l’esercito per arruolarsi come suo soldato. Ordinato esorcista dal santo vescovo Ilario a Poitiers, nel 360 a Ligugè fondò il primo cenobio d’Europa, dove si ritirò finché non venne eletto vescovo di Tours per acclamazione popolare nel 371. Morì a Candes nel 397, e volle una sepoltura umile, come umile era stata tutta la sua vita. Modello del buon pastore, il suo culto divenne popolarissimo in tutto l’Occidente. Viene ricordato dalla Chiesa cattolica l’11 novembre.
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«Tutta colpa delle oche, caro Sulpicio!», disse Martino, ridendo. «Se non fosse stato per loro, probabilmente io ora sarei ancora nel mio cenobio di Ligugé, immerso nella lode di Dio contemplando le meraviglie della Creazione!».
Il monaco Martino, al tempo di queste parole amatissimo vescovo di Tours, così rispose al suo giovane discepolo Sulpicio Severo, il quale gli aveva chiesto come fosse avvenuto che, da uomo solitario, felicemente dedito alla vita contemplativa, ritiratosi da tanti anni nella pace dei boschi attorno a Ligugè, fosse diventato vescovo.
Sulpicio aveva una stima tendente all’infinito per il suo venerabile maestro, forse anche per via di una storia molto simile alle spalle: entrambi provenivano da famiglie romane pagane e dalla lunga tradizione militare, e Sulpicio apparteneva nientemeno che alla gens Severa, che aveva dato imperatori alla gloria di Roma. Entrambi, perciò, avevano conosciuto e amato solo in età adulta quell’ebreo morto in croce qualche secolo prima, e avevano lasciato le loro promettenti carriere, contro il volere delle potenti famiglie, per diventare soldati di Cristo a tempo e cuore pieno.
Sulpicio, di formazione giurista, alquanto influenzato dagli storici Sallustio e Tacito, da tempo accarezzava l’idea di scrivere una biografia del maestro, ben sapendo che, data la sua proverbiale umiltà, se fosse stato per lui, non sarebbe rimasto nulla ai posteri a testimonianza dei tanti prodigi che il Padreterno aveva compiuto per mezzo del suo servo Martino.
Dunque, ogni volta che ne aveva la possibilità, egli cercava di intercettare il vescovo durante la sua ristoratrice passeggiata vespertina nella prima campagna fuori da Tours e, impostata la sua mente in modalità cassetto della memoria, si faceva raccontare episodi significativi della sua vita, per poi correre a metterli per iscritto, prima che il tempo ne sbiadisse i contorni.
Alle parole di Martino, Sulpicio sgranò tanto di occhi, credendo di non aver capito bene.
«Le oche? Ehm… cosa c’entrano le oche con la sua elezione vescovile, padre?», chiese allungando il passo, per camminargli accanto. Nella sua testa riecheggiavano episodi della Roma che fu, ma proprio non poteva figurarsi come delle oche potessero avere parte nell’affidamento di un così importante incarico.
Il padre, probabilmente intercettando i pensieri dell’allievo, riprese: «Mutatis mutandis, le oche diedero l’allarme come al tempo di Brenno sul Campidoglio; solo che, invece dell’augusto colle e dei feroci Galli Senoni, c’era il sottoscritto in una stalla di campagna».
Il povero Sulpicio, lungi dal chiarirsi le idee, si ingarbugliò ancora di più, ma non profferì verbo, aspettando una spiegazione meno sibillina dal maestro, il quale rallentava il passo a mano a mano che si immergeva in quel lontano ricordo.
La campagna nella sera primaverile si tingeva dei colori dorati del sole, che calava grande e maestoso all’orizzonte, dipingendo di biondo la Loira e il Cher, che a Tours uniscono le loro acque per proseguire la corsa fino all’Oceano. Il saluto al giorno del canto degli uccellini era inframmezzato soltanto dal rumore dei passi impolverati che i due monaci sollevavano sullo sterrato che lambiva il declivio da cui si magnificava la dolce valle della Loira fino alle sue propaggini più lontane.
«Quando rimase vacante la cattedra di Tours – riprese Martino – e per le campagne si sparse la voce che si cercava un nuovo vescovo, i contadini della zona attorno a Ligugè e quelli di Tours, parlandosi tra un mercato e un altro, si accordarono sul mio nome. Io non ero certamente famoso per le apparizioni mondane, ma il mio cenobio era diventato un punto di riferimento per tante brave anime cristiane. Innanzitutto, a me stava a cuore principalmente che i contadini lasciassero il culto pagano. Quindi, avevo battuto in lungo e in largo la campagna con grande scrupolosità e meticolosità, non tralasciando di parlare con nessuno di loro. Così, parla oggi parla domani, ho dato loro i rudimenti della nostra santa fede. Infine essi, convinti della bontà delle mie parole, si decisero ad abbandonare gli dei pagani e loro luoghi, che liberai dalle presenze demoniache. Si era instaurato un rapporto di vicinanza tale che spesso poi si rivolgevano al cenobio per tutti i loro bisogni sia spirituali sia temporali e, non da ultimo, anche per chiedere consigli su questioni pratiche, quasi fossimo dei giudici, tanta autorevolezza avevamo acquistato ai loro occhi! E mi raccomandavo sempre con i miei monaci che mai scandalizzassero quelle anime semplici, come di bambini, che avevano lasciato i loro antichi culti per seguire Cristo; noi ne avevamo la piena responsabilità e di ognuna di esse avremmo dovuto rispondere al Giudice supremo, un giorno. Guai a noi se, per avidità, pigrizia, lussuria, cedimenti allo spirito del mondo, avessimo dato loro fiele per miele! Dunque la purezza, la coerenza, la via della Croce dovevano essere il nostro segno distintivo sempre. E fu perciò che, quando il vescovo di Tours morì, il popolo penso a me, a questo oscuro monaco solitario».
«Ma, padre Martino, cosa c’entrano le oche?», ritornò al punto Sulpicio.
«Ah, le oche!» esclamò il santo vescovo, arrestandosi e guardando dritto negli occhi l’allievo, come riemergendo dai suoi pensieri.
«Come starnazzavano! Forse pensavano che io volessi mangiare le loro uova, chissà. Invece volevo solamente sottrarmi al tripudio della folla, caro Sulpicio!».
Il padre stette un momento in silenzio, poi riprese a camminare, tornando lentamente a reimmergersi nel ricordo di quel giorno dell’anno di Grazia 371.
«Quel pomeriggio, dalla cima della collina del cenobio, notai una macchia scura che arrancava su per il sentiero. Man mano che incespicando si avvicinava, riconobbi un prete, tanto esile e leggero che pareva potesse volare via con una folata di vento. Conoscevo tutti i preti della zona, uomini robusti dalla corporatura contadina. Quello doveva venire da una città e avere lunghe dita rosee e delicate, a giudicare dalla fatica del suo arrabattarsi tra sterpi, rovi e sassi. Qualcosa si allarmò nel mio animo. Perché mai un pretino simile si era preso la briga di arrivare fino ai confini del mondo civile? Temevo che, in un qualche modo, quella strana visita fosse collegata alla vacanza della cattedra di Tours e potesse riguardarmi. Non avevo assolutamente alcuna intenzione di scendere a valle, lasciare i miei boschi, il mio silenzio e la vita semplice, fatta di preghiera e lavoro, che conducevo. Avevo tanto penato per arrivare a essere monaco, combattendo prima contro la mia famiglia, che voleva che seguissi le orme militari degli avi, e poi contro l’esercito, che non voleva congedarmi! Mi immaginavo di percorrere i giorni che mi separavano dal saluto a questo mondo esattamente come li stavo trascorrendo; non chiedevo niente di più al Creatore. Quindi, quasi per una sorta di istinto difensivo, chiesi al buon padre Jean di accogliere il pretino di città, facendo le mie veci in tutto e per tutto, e di venire poi a riferirmi cosa fosse venuto a fare a Ligugè. Mentre ero nella mia celletta, pregando che i miei presentimenti fossero soltanto fantasie, arrivò padre Jean tutto entusiasta: vescovo! Mi avevano scelto come vescovo di Tours! Ero ancora lì che stavo cercando di riavermi dalla per nulla lieta notizia, quando sentimmo un vociare indistinto, un rumore di passi farsi sempre più vicino. Poiché nelle campagne anche gli alberi e i fili d’erba hanno orecchie, il popolo stava recandosi al cenobio per festeggiare e congratularsi con il vescovo in pectore. Uscii allora dalla porta della dispensa e mi inoltrai nel bosco dalla parte opposta a quella della folla per sottrarmi alla festa, di cui io non vedevo il minimo motivo. Volevo far perdere le mie tracce per un po’, così che gli animi si calmassero e i contadini si convincessero che non ero certo io la persona più adatta a ricoprire quell’augusta carica. Quale vescovo che si rispetti, infatti, si dilegua lasciando il suo gregge a festeggiarlo da solo? Mi infilai in un fienile di un contadino che ben conoscevo e si trovava in una posizione alquanto defilata. Mi inoltrai tra i covoni di paglia ordinatamente accatastati e mi sedetti tranquillo, ad aspettare che il corteo, ricevuta la notizia della mia assenza, si sciogliesse, per potermene tornare tranquillo all’eremo. A un certo punto, nella penombra, sentii un fruscio. Guardingo, mi sporsi fuori e vidi un’ombra bassa e goffa di fronte a me. Lì per lì pensai a un bambino che si avventurava tra i covoni, magari per giocare a nascondino, ma più mettevo a fuoco la figura più l’ipotesi perdeva consistenza. L’ombra si rivelò una macchia bianca su due zampette sottili e un lungo becco arancio: decisamente, quella che avevo davanti era un’oca che mi stava guardando, come stupita della mia presenza, indecisa sul da farsi. Io rimasi immobile, sperando di diventare invisibile ai suoi occhi; in silenzio la guardai e pregai che non iniziasse a fare rumore. Stavo mentalmente chiedendole di andarsene, quando quella allargò le ali, si piantò ben bene sulle zampe e, aperto il becco, iniziò uno starnazzio prolungato e acutissimo, che doveva fungere da allarme per tutte le altre, perché arrivarono all’istante non so quante altre oche infuriate, con ali rotanti e, ahimè, starnazzi ininterrotti. Fu un attimo e, ovviamente, sentii avvicinarsi passi e voci inequivocabilmente umane. Mi trovai di fronte il contadino, che tutto si aspettava tranne che trovare me incantonato in un angolo del suo fienile, circondato dalle sue oche in assetto di guerra. Io mi ero messo le mani sulle orecchie per difendermi da quel rumore infernale, ormai rassegnato a essere miseramente scoperto. Il contadino, con un’espressione che definire stupita è niente, mandate via le oche, si avvicinò e mi disse: “Padre Martino, se aveva voglia di un uovo, poteva chiedermelo!”. E indicò un cumulo di paglia proprio nell’angolo in fondo ai covoni dove mi ero andato a nascondere, sul quale erano adagiate, belle, levigate e invitanti, alcune uova. Immagina, Sulpicio, quanto mi sentii stupido in quel momento! Ero andato a mettermi proprio di fianco al nido delle oche! Non seppi né potei fare altro che rispondere al contadino con un impacciato sorriso, e quello, dopo avermi porto un uovo, mi condusse fuori dal mio nascondiglio, dove fui accolto dal giubilo generale. Mentre me ne stavo lì impalato, con il mio uovo tra le mani, mi disse: “Sa, padre, le dobbiamo dare una bellissima notizia…”. Il resto è storia. Da lì a qualche giorno, abbandonati i miei amati boschi, mi ritrovai nella diocesi di Tours, dietro alla scrivania di uno studio zeppo di rotoli e volumina, ad ascoltare l’esile e piccolo prete che era venuto a cercarmi al cenobio, il quale mi esponeva i problemi da risolvere con il governatore delle Gallie per la costruzione di una nuova chiesa».
Sulpicio, figurandosi il suo venerabile maestro nascosto nella paglia e attorniato da un branco di oche inferocite, tratteneva a stento il riso. E Martino se ne avvide benissimo, perché veniva da ridere anche a lui.
«Così è solita operare la Provvidenza» rifletteva Sulpicio oramai adulto, mentre vergava, parecchi anni dopo, l’episodio raccontatogli dal suo scomparso maestro nella sua Vita Martinii. «Essa va a scovare proprio coloro che meno vorrebbero essere tirati in mezzo alle beghe di questo mondo, e di quelli fa i suoi strumenti d’elezione. Nella sua inarrivabile scienza, la Provvidenza divina sapeva che il servo di Dio Martino non avrebbe mutato le proprie abitudini monastiche e anche da vescovo avrebbe percorso le Gallie a piedi, o al massimo a dorso di un asino, per portare il Vangelo ai contadini, estirpare il paganesimo e riportare l’ortodossia nelle controversie con la mala pianta ariana. E in qualsiasi momento gli fosse stato chiesto, sarebbe ben volentieri ritornato nel suo cenobio in cima al colle di Ligugè, nel silenzio e nel nascondimento. E proprio per ciò, per pascere le pecorelle di Dio di Gallia non c’era uomo più adatto del venerabile Martino, per convincere il quale la mano del Creatore dovette servirsi di tutta la potenza acustica di una muta di oche imbizzarrite».