Caro Aurelio…

Caro Aurelio,

ti rispondo mentre il papa è ricoverato al Gemelli e il quadro clinico sembra farsi più serio. Al momento, dicono le cronache, l’infezione alle vie respiratorie ha richiesto una nuova terapia, ma l’età, ottantotto anni, è quella che è, e sappiamo quanto possano essere fragili gli anziani in presenza di certe patologie.

In questo momento mi torna in mente la giornata che trascorsi con Francesco a Santa Marta nel marzo del 2013, pochi giorni dopo la sua elezione. Il papa era sorridente e disponibile, e sembrava pieno di energia. Era mia intenzione realizzare uno Speciale Tg1 sulla sua vita nell’albergo vaticano in cui aveva deciso di vivere. Francesco, pur con grande cortesia, disse di no alle telecamere, e quindi il progetto andò a monte. Però mi tenne con lui alcune ore e potei vedere da vicino il suo mondo. Mi parlò della sua devozione per san Giuseppe, mi mostrò il suo ufficio, lo vidi all’opera sui documenti che i collaboratori gli portavano in visione dal palazzo apostolico e dai vari dicasteri vaticani.

All’epoca avevo fiducia in Francesco. Venivamo da giorni drammatici, dopo la rinuncia di Benedetto XVI. Ancora una volta, un po’ come alla fine del regno di Paolo VI, la Chiesa appariva in difficoltà, bisognosa di aprire una pagina nuova, e il papa arrivato dalla fine del mondo dava l’impressione di poter essere l’uomo giusto.

La mia personale “luna di miele” con Francesco non durò molto. Presto mi accorsi delle sue contraddizioni e ambiguità, e lo spirito di misericordia da lui incarnato mi apparve come una facciata. Fu nel 2016, con Amoris laetitia, che dovetti arrendermi: il papa aveva tradito. Mi aveva tradito. Aveva spalancato le porte al relativismo morale. Si stava dimostrando più amico del mondo che di Nostro Signore.

Ora che Francesco è in una stanza d’ospedale e respira a fatica, ora che ci viene mostrato su una sedia a rotelle, con il volto gonfio e inespressivo, prego ancora di più per lui, così come prego per altre persone malate che conosco e che mi sono care. Sì, Francesco mi è caro perché è Pietro. Jorge Mario Bergoglio ha commesso tanti errori e non gli ho mai risparmiato le critiche, ma non ho alcuna intenzione di abbandonare Pietro. Anche perché vedo che egli, a forza di lasciarsi assimilare dal pensiero dominante, è sempre meno rilevante.

Volendo essere amico del mondo, Bergoglio si è annullato, e la sua è diventata una voce come tante altre. Dicendo le stesse cose che dice il mondo, e con le stesse modalità (vedi le apparizioni televisive), ha perso la sua specificità.

Chiunque sarà il successore, dovrà lavorare, penso, soprattutto su questo fronte: ridare a Pietro la sua specificità, restituirgli il suo ruolo unico. Perché un Pietro appiattito non serve a nessuno. Non serve alla Chiesa, ma non serve nemmeno al mondo.

Quindi, oltre che per Francesco, prego, già ora, anche per il successore. Perché avrà bisogno di un sostegno veramente speciale di fronte al compito immane che lo attende.

Ti potrà sembrare strano, ma mi sento più unito a un Pietro fragile e bisognoso che a un Pietro forte e tonico. Mi successe anche con Giovanni Paolo II. Lo sentii molto più vicino quando divenne debole rispetto a quando era arrembante e grintoso.

Dopo quella giornata a Santa Marta mi precipitai al computer per mettere sulla carta tutto ciò che avevo visto. Il cronista che è in me temeva di dimenticare qualche dettaglio, qualche sensazione. Poi si insinuò un dubbio: Francesco, oltre che simpatico e disponibile, era forse anche un sottile manipolatore?

Il mestiere del vaticanista, te l’ho detto tante volte, è alquanto complicato. Ma oggi è quanto mai complicato anche essere un semplice cattolico.

“Quando un uomo forte, bene armato, fa la guardia al suo palazzo, ciò che possiede è al sicuro. Ma se arriva uno più forte di lui e lo vince, gli strappa via le armi nelle quali confidava e ne spartisce il bottino. Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me disperde” (Luca 11, 21-23).

Continua

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