Mattarella sulla Russia / 2. Chi vilipende chi?

di Pietra Battente

Molti di noi, certamente, ricordano Il compagno don Camillo, l’ultimo film della serie con l’indimenticabile coppia Cervi-Fernandel (1965, regia di Luigi Comencini). Qui i due protagonisti si ritrovano in Unione Sovietica per celebrare un gemellaggio tra la sezione comunista di Brescello e un’analoga organizzazione politica locale. Il nostro parroco, ovviamente, ha dovuto travestirsi da perfetto tovarišč venuto anch’egli dalla Bassa (ma con tutto l’occorrente per celebrare di nascosto la messa quotidiana).

In queste ore, la mia mente è tornata a una famosa e commovente sequenza del film nella quale don Camillo accompagna il Brusco (interpretato da un altrettanto grande Saro Urzì) alla ricerca del fratello di quest’ultimo – alpino ma fervente fascista – caduto nella Campagna di Russia e, secondo quanto segnato in una mappa, sepolto proprio in quella zona. La ricerca sembra portare i due nei pressi del luogo indicato dal fiero comunista brescellese; purtroppo al posto di un cimitero di guerra si presenta ai loro occhi una sterminata pianura coltivata a grano. Dopo che il Brusco, in ossequio al volere della madre, ha acceso un lumino tra le spighe per ricordare il fratello caduto, si svolge tra lui e don Camillo un breve ma intensissimo colloquio. Poche parole che, alla luce di certi accadimenti di questi giorni, assumono un significato del tutto particolare. Ecco ciò che – riporto il più fedelmente possibile – si dicono i due di fronte allo spettacolo di quella campagna.

Il Brusco: ma perché hanno fatto questo? Hanno diciotto milioni di chilometri quadrati di terra e proprio qui dovevano seminare il grano?

Don Camillo: compagno, chi ha avuto venti milioni di morti non può preoccuparsi di cento o duecentomila nemici che sono caduti qui.

Ora nessuno, e per primo chi scrive, intende minimamente mancare di rispetto alle decine di migliaia di soldati italiani caduti in Russia e agli altrettanti che riuscirono a salvarsi dopo le incredibili sofferenze di una ritirata mostruosa ed epica al tempo stesso. Quanta grande letteratura nacque per narrare quei mesi. Dal Rigoni Stern de Il sergente nella neve (“Sergentmagiù, ghe rivarem a baita?”) al Giulio Bedeschi di Centomila gavette di ghiaccio. No, no, non è questo il tema sul tappeto. Il discorso è un altro e ci porta, dritti dritti, alla cronaca politica di questi ultimi giorni.

Il solo rivedere e riascoltare quella sequenza, e il breve colloquio che l’ha resa grande, dovevano certamente bastare a qualcuno di nostra conoscenza per evitare di pronunciare le parole che, con incredibile leggerezza e noncuranza della Storia, sono state proferite paragonando l’attuale atteggiamento russo, nella guerra con l’Ucraina, a ciò che fecero i nazisti oltre ottanta anni fa.

Non trovo aggettivi adeguati per esprimere il mio personale disgusto di fronte a ciò che è stato detto. Un autorevole esponente di uno Stato che, nella seconda guerra mondiale, fu ignobilmente e stolidamente succube alleato del mostro con la croce uncinata, accusa oggi di incipiente neo-nazismo i governanti della nazione che ha pagato il più alto tributo di sangue, lutti e rovine (umane, materiali, psicologiche e spirituali) per liberare il mondo da quell’incubo. Quanto solennemente pronunciato è ancor più condannabile se lo si analizza rispetto alla scelta dei tempi di questa comunicazione. Appare infatti chiarissima l’intenzione di innescare, da vero e proprio pompiere alla rovescia, un nuovo incendio proprio in presenza di un forte e autorevolissimo tentativo per avviare seri negoziati di pace sullo scenario globale del conflitto. D’altra parte appare ormai chiaro come la Pax trumpiana sia vista come il fumo agli occhi dall’Occidente europeo e, lo sappiamo bene, il decennale inquilino degli appartamenti che furono prima dei papi e poi dei re sabaudi è un fierissimo e convinto portabandiera di tutte le istituzioni continentali del beneamato Occidente.

Non posso che condividere pienamente quanto affermato da Valli nel suo contributo, lucido e autorevole, apparso su Duc in altum il 15 febbraio (qui): sacrosanta, giusta e totalmente da sottoscrivere la reazione russa espressa dalla portavoce del ministero degli Esteri, la signora Maria Zakharova.

Chiudo stigmatizzando al massimo l’atteggiamento assunto nella vicenda dalla nostra presidente del Consiglio. Posso comprendere le mille e ovvie ragioni, istituzionali e politiche, che non potevano consentire prese di posizione non dico di rottura con le dichiarazioni “alte e nobili” (come si dice in questi casi) che sono state fatte, e nemmeno velatamente o parzialmente discordanti. Ma diamine, qualche minuto per una minima analisi e valutazione preliminare su certe parole usate lo si poteva pure spendere. Ma come si fa a parlare della reazione russa in termini di oltraggio, di offesa fatta all’intera nazione italiana oltre che al suo massimo esponente? Chi è che ha realmente offeso e vilipeso chi?

Quale nazione, quale popolo ma, soprattutto, quali istituzioni possono accusare con tali prosopopee altri Paesi di rigurgiti e velleità nazifasciste? E non mi riferisco solo a un passato – specie quello che ha contraddistinto l’Italia dalla promulgazione delle leggi razziali sino all’8 settembre 1943 – che in simili circostanze dovrebbe sempre suggerire esternazioni più che mai prudenti. Penso anche alle ben poche lezioni di etica politica che l’Italia democratica e antifascista è in grado di dare al mondo se solo riflettiamo sull’oltre mezzo secolo di realtà nazionale post-bellica. Un periodo nel quale – in politica, nelle istituzioni, nell’economia e nella cultura – poteri decisionali e costruzione del consenso sono stati affidati a battaglioni di voltagabbana che trasformarono assai rapidamente la loro “milizia” in fantomatiche appartenenze antifasciste e resistenziali.

E allora, gentile signora Meloni, ci dia la libertà di affermare, anzi di gridare che l’insulto alla nazione non lo hanno certo fatto le prese di posizione russe. Giri il suo sguardo da un’altra parte e… troverà chi ha realmente insultato chi.

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Nella foto [Evgeniy Khaldey], soldati russi con le bandiere naziste ammainate durante la Parata della vittoria al termine della Seconda guerra mondiale

 

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