Cronache dalla grotta / Della (fallace) ricchezza della bocca e di salutari alambicchi

di Rita Bettaglio

Trent’anni fa, negli Stati Uniti, conobbi una coppia di abruzzesi che, guidati dal coraggio e dal desiderio di una vita migliore, negli anni Settanta avevano lasciato la loro terra in cerca di fortuna. Erano arrivati a Columbus, Ohio, conoscendo solo il dialetto del loro paese. Lavorando con la determinazione tipica degli abruzzesi, si erano fatti una posizione come sarti. Lui si chiamava Carmine e lei Vienna, Carmine e Vienna D’Alberto, titolari della D’Alberto’s Custom Tailoring nel German Village, a Columbus.

Perché a distanza di tanti anni, sepolta nella mia grotta, mi ricordo di loro? Per via di una frase di Vienna che non dimenticherò mai e che mi dà numerosi spunti di riflessione in questa Quaresima.

Carmine mi illustrava con orgoglio la sua attività, mostrandomi la sartoria e Vienna, con dolcezza, intervenne, ridimensionandolo con quella concretezza tutta femminile: “Carmine, la bocca è ricca!”.

È vero, la bocca è ricca e con la bocca siamo in grado di salire ogni vetta, anche quelle inaccessibili alle nostre gambe.

La grotta, in questa Quaresima, attende il lento progredire della stagione e coglie con sollievo ogni raggio di sole, promessa della primavera che, a Dio piacendo, arriverà. Ogni minuto di luce in più è figura e pegno del giorno senza tramonto che attendiamo con fiducia.

Oggi più che mai risuonano nella grotta le parole di Vienna e interrogano: la nostra bocca parla davvero dalla pienezza del cuore o si cimenta in castelli di carte che non resistono al primo refolo d’aria?

Dice san Benedetto nel capitolo sesto, dedicato all’amore per il silenzio: “Anche se si tratti di argomenti buoni e pii ed edificanti, tanta è la gravità del silenzio che ai discepoli perfetti raramente si deve conceder licenza di parlare” (RB 6, 3).

Tasto dolente, soprattutto oggi che i social offrono a tutti un allettante (e gratuito) Speakers’ Corner.

Siamo sempre in dubbio se parlare o tacere e ci domandiamo se, in questo pelago di naufraghi, una nostra parola possa essere un salvagente per un fratello o sia meglio conservare il silenzio e pregare per il suddetto fratello. Ci potrebbero essere ragioni pro e contro e una ridda di demonietti che, come mosconi, ronza intorno al nostro capo, si scatena: parla! Taci! Rendi testimonianza! Conserva questa cose meditandole nel tuo cuore! Insomma siamo tirati da ogni parte, fino a non capire più cosa sia meglio. Ci assale anche il dubbio se quello che sarebbe meglio per noi, spesso tacere, sia anche il meglio per gli altri, cui una parola buona potrebbe essere di giovamento.

Per distillare un mosto e trarne qualcosa di buono, servono degli alambicchi e un’alternanza di evaporazione e condensazione. Non è diverso per l’anima che necessita della preghiera come alambicco e dello Spirito Santo come fuoco che porta a ebollizione. La distilleria è la grotta, dove, clauso ostio, avviene questo silenzioso e arcano processo. Notiamo che la distillazione fu conosciuta e utilizzata fin dall’antichità, per produrre bevande alcoliche ma anche, e primariamente, essenze odorose, gli olii essenziali. In odorem unguentorum tuorum: la Parola di Dio si distilla attraverso la lectio e la ruminatio, gli alambicchi interiori, fino a produrre odorose fragranze.

Meditiamo sull’esempio di padre Vincent McNabb, il domenicano maestro di Chesterton. Egli dal 1920 ogni domenica pomeriggio si recava allo Speakers’ Corner di Hyde Park, a Londra, tradizionale luogo di discorsi e dibattiti pubblici. Lì, da quella tribuna improvvisata, predicava, dopo aver percorso a piedi tre chilometri dal convento di Saint Dominic. Scarponi militari e in spalla uno zaino contenente la Bibbia e la Summa Teologica, divenne famoso nella Londra del tempo, non certo un luogo ameno per i cattolici. Siamo anche noi così? Possiamo dire di somigliargli almeno un po’? Facciamo tre chilometri a piedi prima di dare fiato alla bocca? Portiamo con noi la Bibbia e la Summa, cioè le basi più solide della nostra fede?

Se, arrossendo un po’, siamo costretti ad ammettere che non siamo esattamente come lui, nessuna meraviglia. Io sono la prima ad avvampare di vergogna al confronto.

Ma abbiamo la grotta, ognuno la propria, dove distillare, Deo adjuvante, ciò che non è certo farina del nostro sacco. Questa sostituirà i tre chilometri a piedi che padre Vincent percorreva ogni domenica e il pesante suo zaino.

Perciò, ancora e sempre: viva la grotta!

 

Per contattare la cavernicola potete scrivere a: cronachedallagrotta@gmail.com

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