di Laura Dodsworth
Il disegno di legge britannico sui malati terminali adulti sta passando in Parlamento con una velocità inquietante. Che si sostenga o si sia contrari al suicidio assistito, non è questo il modo di legiferare sulla vita e sulla morte. La discussione su un disegno di legge di tale gravità dovrebbe essere lenta, attenta e dignitosa. Invece la commissione che lo esamina sta procedendo a razzo e, cosa ancora più grave, è schierata a suo favore, con solo otto parlamentari su ventitré che dissentono attivamente. Gli emendamenti che potrebbero salvaguardare le persone vulnerabili vengono respinti uno dopo l’altro. Difficile evitare l’impressione che i sostenitori del progetto di legge siano determinati in modo macabro a farlo passare a qualsiasi costo.
La preoccupazione più recente e lampante è la rimozione di un giudice dell’Alta Corte dal processo decisionale. Al suo posto, si prevede che le approvazioni saranno gestite da un comitato multidisciplinare: un cambiamento di fronte al quale ventisei parlamentari laburisti hanno avvertito che in questo modo vengono contraddette le promesse fatte dai sostenitori del disegno di legge e si riducono in modo decisivo le protezioni per i vulnerabili.
Anche la norma che prevedeva che il medico dovesse chiedere a un paziente il perché del desiderio di morire è stata respinto. La parlamentare Rachel Hopkins ha detto in toto, sostenendo in sostanza che il ruolo di un medico nella prevenzione del suicidio sia irrilevante. Se in base all’idea di autonomia il medico non deve chiedere perché il paziente desidera porre fine alla propria vita, che fine fa la prevenzione del suicidio? Come possiamo dire ad alcune persone che ogni vita è preziosa mentre diciamo ad altre che la loro sofferenza rende la morte l’opzione migliore?
Altre garanzie cruciali sono state scartate. Le proposte di includere protezioni speciali per le persone con sindrome di Down sono state accantonate. Respinta anche l’ipotesi di un periodo di riflessione obbligatorio per pazienti con diagnosi terminale, il che apre la porta a decisioni affrettate, prese sotto pressione o in momenti di disperazione.
Le argomentazioni a favore della morte assistita spesso si concentrano sulla compassione e sul desiderio di prevenire sofferenze inutili, ma la compassione può diventare fredda. Nessuno ormai è nemmeno tenuto a valutare se una persona che cerca la morte assistita si senta un peso per gli altri, nonostante le prove evidenti che molte persone disabili e anziane provano esattamente questa paura. Infatti, alcune persone pensano che questa sia una ragione perfettamente valida per voler morire.
E se il diritto di morire diventasse il dovere di morire? L’esperienza di altri Paesi dimostra che una volta che il suicidio assistito è consentito, i suoi confini si allargano progressivamente. Ciò che inizia come un’opzione strettamente regolamentata per i malati terminali si espande sempre di più, rendendo il suicidio assistito o, meglio, l’eutanasia più disponibile, più accettata e, in ultima analisi, più attesa.
Questa legge rischia anche di indebolire il ricorso alle cure palliative. Se il suicidio assistito diventasse una soluzione accettata e comoda, diminuirebbero gli investimenti nella gestione del dolore e nelle cure del fine vita. Il budget del Sistema sanitario nazione non verrebbe ampliato, ma ulteriormente ridotto. Quindi, diventeremo una società che sceglie di accelerare la morte piuttosto che di curare?
Il consenso su questa legge e il modo in cui viene forzata minano la dignità e la sacralità della vita. Chi vuole accelerare la morte ora vuole accelerare anche la discussione sulla legge. Ma non c’è nulla di compassionevole nell’eliminare le garanzie per i vulnerabili. Se, come società, dobbiamo decidere se il suicidio assistito debba essere legale, almeno facciamolo in modo corretto. Questa legge non è la strada giusta.