
I singles e l’adozione. Ora è ufficiale: i diritti del “genitore” prevalgono su quelli del minore
di Vincenzo Rizza
Caro Aldo Maria,
la recente sentenza della Corte costituzionale n. 33/2025 che consente alle persone singole di presentare dichiarazione disponibilità ad adottare minori stranieri residenti all’estero non mi stupisce e rappresenta l’ennesima dimostrazione che la finestra di Overton è ormai spalancata in favore di principi contrari al diritto naturale e al buon senso.
Un tempo il nostro ordinamento si rifaceva ai principi di ordine pubblico e buon costume; la sentenza della Corte delle leggi è, invece, diretta conseguenza, del tutto coerente, di un’epoca in cui regnano il disordine pubblico (con forze dell’ordine disarmate e sterilizzate da una legislazione che tende a tutelare chi delinque e non protegge i più deboli) e i cattivi costumi (con la corruzione sociale che ha preso il posto della moralità sociale). Il tutto in barba alle previsioni tuttora vigenti della stessa Costituzione (quella che secondo alcuni sarebbe la più bella del mondo ma che è talmente ambigua da poter essere interpretata in mille modi diversi) per cui la Repubblica dovrebbe riconoscere “i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio” (art. 29) e dovrebbe proteggere la “maternità, l’infanzia e la gioventù” (art. 31).
Le premesse e le motivazioni della sentenza sono significative per comprendere il cambio di passo della nostra epoca decadente, a partire dalle ragioni per cui il Tribunale per i minorenni di Firenze ha adito la Corte costituzionale.
Il presupposto è, almeno formalmente, la valutazione dei “migliori interessi” del minore che dovrebbe essere affidata all’accertamento in concreto effettuato dal giudice, senza inutili limiti fissati dal legislatore. In particolare sarebbe superata l’idea che l’adozione debba plasmarsi su una prospettiva di imitatio naturae, «sicché la preferenza per la bigenitorialità non risponderebbe a un “vincolo giuridico a tutela diretta del minore”, ma sarebbe … “il retaggio di una supposta logica naturalistica secondo una visione dogmatica della nozione di famiglia”».
Insomma, l’esigenza di individuare un contesto familiare che dia sufficienti garanzie di stabilità «non dovrebbe “necessariamente […] rinvenirsi nella struttura familiare composta da una coppia unita nel vincolo del matrimonio”». D’altro canto i modelli familiari presentano oramai «caratteristiche di pluralismo sociale, culturale, identitario», il che sarebbe «un dato acquisito della vita sociale e comunitaria» e «lo stesso concetto di famiglia si [sarebbe] andato non soltanto allargando, ma approfondendo attraverso il riconoscimento di sostegni relazionali aperti» anche di natura monoparentale «e considerata anche la rete famigliare aperta di riferimento».
L’esclusione, pertanto, dall’accesso all’adozione internazionale per la persona non coniugata sarebbe un mezzo inidoneo allo scopo di garantire al minore un ambiente stabile e accogliente.
Tali considerazioni sono, naturalmente, fatte proprie anche dalla parte ricorrente nel giudizio a quo, che ha rilevato come «la preclusione dell’adozione internazionale alle persone singole non sarebbe necessaria in una società democratica, essendo ormai venuta meno, a livello normativo e giurisprudenziale, l’idea che solo la bigenitorialità possa garantire la crescita armoniosa del minore».
La Corte ha, quindi, analizzato il ricorso precisando che la questione all’esame attiene solo alla condizione della persona che ha lo stato libero, in quanto non è vincolata da un matrimonio: «Non rientra, invece, nel perimetro del presente giudizio la condizione della persona che non ha lo stato libero, in quanto è parte di un’unione civile (art. 86, primo comma, seconda parte, cod. civ.). Tale questione non è oggetto dell’odierno giudizio e, dunque, resta impregiudicata». Impregiudicata, allora, la questione relativa all’adozione da parte di chi è vincolato «da un’unione civile tra persone dello stesso sesso» (così l’art. 86 c.c.), ma evidentemente già pronta ad essere decisa al prossimo ricorso, anche perché, a questo punto, sarebbe chiaramente discriminatorio consentire l’adozione internazionale al single e non alla coppia dello stesso sesso unita civilmente. Parimenti è solo questione di tempo l’autorizzazione anche alle adozioni nazionali, non essendo ragionevole che ciò che è divenuto permesso per le adozioni internazionali sia vietato per quelle nazionali.
Esaminato il quadro normativo storico e attuale nazionale e internazionale (innanzitutto la Convenzione dei diritti dell’uomo e la Convenzione europea sull’adozione dei minori), la Corte rileva che principio ispiratore della legge n. 184 del 1983 «è l’interesse del minore che viene perseguito attraverso un duplice percorso: affermando il suo diritto a essere cresciuto e educato nell’ambito della famiglia d’origine e assicurandogli, ove ciò non sia possibile, un ambiente familiare stabile e armonioso (“un foyer stable et harmonieux), in linea con il principio affermato all’art. 8, paragrafo 2, dalla Convenzione di Strasburgo del 1967».
L’art. 6, comma 1, della richiamata legge dispone che «[l]’adozione è consentita a coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni. Tra i coniugi non deve sussistere e non deve avere avuto luogo negli ultimi tre anni separazione personale neppure di fatto». Sempre secondo la Corte il legislatore, quindi, «pur avendo ratificato la Convenzione di Strasburgo del 1967 ed essendosi ispirato ai suoi principi, non si è avvalso della facoltà concessa da tale Convenzione di consentire l’adozione anche alle persone singole, ma ha voluto garantire la bigenitorialità, associata alla stabilità della coppia, anche a costo di limitare la platea dei potenziali adottanti e, dunque, di ridurre le possibilità per i minori di essere adottati».
La legge, tuttavia, non esclude tout court al singolo di adottare un minore, anche se in alcuni casi eccezionali (morte o incapacità di un coniuge o separazione dei coniugi affidatari durante l’affidamento preadottivo oppure minori affetti da disabilità o per i quali sia risultato impossibile l’affidamento preadottivo).
Fatta questa premessa in cui, ancora, sembra essere determinante l’interesse del minore, la Corte rileva che «le scelte orientate alla costituzione di vincoli genitoriali sono ascrivibili all’ampio contenuto della libertà di autodeterminazione»: «la scelta di diventare genitori e di formare una famiglia che abbia anche dei figli costituisce espressione della generale libertà di autodeterminarsi».
L’autodeterminazione diventa, quindi, parametro per valutare la legittimità delle norme che fissino limiti alla genitorialità diverse dalla procreazione naturale. Bontà sua la Corte, in questo caso, esclude (almeno formalmente) che si possa parlare «di una pretesa o di un “diritto alla genitorialità”»; aggiunge, tuttavia, che i «presupposti costitutivi di un vincolo genitoriale non solo, infatti, coinvolgono una pluralità di interessi, ma devono essere anche orientati alla realizzazione dell’interesse del potenziale figlio, cui è inscindibilmente correlato il vincolo genitoriale… Dunque, l’autodeterminazione orientata alla genitorialità in tanto può far valere la propria vis espansiva, in quanto si opponga a scelte legislative che, avendo riguardo al complesso degli interessi implicati, risultino irragionevoli e non proporzionate rispetto all’obiettivo perseguito…».
Da una visione per cui l’interesse primario da tutelare è quello del minore (che secondo la legge, ritenuta oggi irragionevole, avrebbe diritto ad avere una famiglia composta da un padre e da una madre che siano sposati da almeno tre anni e che quindi abbiano un vincolo stabile), si passa a una visione per cui va tutelato «anche» l’interesse del potenziale figlio. In effetti la sentenza continua affermando: «D’altro canto, la primaria considerazione dell’interesse del minore (o del concepito o del futuro nato) non comporta che la protezione costituzionale di tale interesse ricomprenda qualunque istanza il legislatore ritenga di riconoscergli. Le singole esigenze riferite al potenziale figlio vanno, infatti, anch’esse ponderate, tenendo conto di eventuali altre istanze di quest’ultimo, nonché dell’interesse di chi aspira alla genitorialità».
Rilevo, allora, che secondo la Corte l’interesse del minore (come quella del concepito) rimane in realtà solo formalmente «primario», dovendo raccordarsi con altri interessi: quello alla genitorialità nel caso dell’adozione, quello di sopprimere una vita nel caso dell’aborto. In entrambi i casi il minore e il concepito non mi sembra abbiano grande voce in capitolo.
Tenuto conto, ancora, che:
l’art. 8, paragrafo 2, CEDU stabilisce che «[n]on può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui»;
«se l’ingerenza sia necessaria in una società democratica dipende dal suo corrispondere a un’esigenza sociale urgente, vale a dire dal suo essere proporzionata allo scopo legittimo perseguito, tenuto conto del giusto equilibrio che deve essere garantito tra gli interessi concorrenti rilevanti, anche in considerazione del margine di discrezionalità lasciato alle autorità nazionali»;
«simile valutazione deve essere effettuata alla luce delle condizioni del presente, essendo la Convenzione EDU uno strumento vivente… sicché il margine di discrezionalità può variare nel tempo, oltre a risentire del grado di consenso fra gli Stati contraenti in ordine al riconoscimento di un diritto o di una facoltà»;
«l’esclusione della persona singola dall’accesso all’adozione internazionale lede gli artt. 2 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU».
Insomma, la disciplina censurata si riverbera sul diritto alla vita privata, inteso come «libertà di autodeterminazione, che si declina, nel contesto in esame, quale interesse a poter realizzare la propria aspirazione alla genitorialità, rendendosi disponibile all’adozione di un minore straniero».
Si valorizza nuovamente, dunque, il diritto alla genitorialità (poco prima negato dalla Corte) che prevale, di fatto, sul diritto del minore ad avere una famiglia e non il suo surrogato.