
Identikit di una civiltà che si sta suicidando
Se a un antropologo venisse chiesto di descrivere i segni di una cultura morente mediante suicidio, che cosa noterebbe?
Qualche anno fa Anthony Esolen affrontò l’argomento in un articolo [qui] che oggi risulta ancora più attuale perché fotografa esattamente ciò che stiamo vivendo.
Nella descrizione dei tratti caratteristici di una società morente ritroviamo noi stessi, la cosiddetta civiltà occidentale degli anni Venti del terzo millennio.
Una cultura del genere, morente mediante suicidio, è ovviamente più interessata alla morte che alla vita. Promuove il diritto di morire secondo la propria volontà, ma non il diritto di vivere, bensì solo il permesso di vivere, fintantoché si possiedono determinate qualità riconosciute come utili o accettabili. E quali siano queste qualità e come debbano essere riconosciute è qualcosa che cambia a seconda delle richieste e dei sentimenti politici. Questa cultura dice che la vita non è un dono, ma semplicemente una cosa che possiamo gettare via a nostro piacimento, come la spazzatura. Dice che niente è sacro.
Ma questa disponibilità a morire non è né coraggiosa né generosa. Il giovane coraggioso che sta al suo posto sul campo di battaglia è disposto a morire non perché sia stanco della vita, ma perché è così pieno di vita e così mosso da sentimenti di amicizia verso i suoi fratelli d’armi da poter dare la vita in trincea. Invece, i soldati che vogliono morire hanno già perso. Quando una persona anziana o malata dice “basta”, esprime il suo rifiuto, come diceva Chesterton, dell’intero universo. In genere si corre verso la morte perché si ha paura della sofferenza, che in una cultura morente ha perso il suo significato. Al pensiero degli ospedali-macchine in cui si viene rinchiusi per morire, si fugge e ci si getta nell’abisso, nel nulla.
In una cultura morente, nessuno vede più il divino nell’umano. Esolen cita un episodio che lo ha colpito. L’autrice di un articolo, sapendo che il suo scritto è corredato dall’immagine di un bimbo di diciotto settimane nel grembo materno, sente il bisogno di assicurare che sarebbe un errore usare quella foto come argomento contro i “diritti riproduttivi” delle donne. Il fatto che la fotografia raffiguri un essere di una bellezza travolgente e misteriosa, un dono, una meraviglia, un essere creato a immagine di Dio, è qualcosa che all’autrice sfugge del tutto. La sua preoccupazione è solo ideologica.
In una tale cultura, le persone dimenticano l’anima e sono ossessionate dal corpo, ma non dal corpo come dotato di un significato intrinseco. In questo tipo di cultura morente il corpo è manomesso, perforato, plastificato, usato per farci graffiti. In generale, è ridotto a uno strumento di edonismo o a un misero tentativo di autoespressione là dove non c’è più nulla da esprimere. Allo stesso modo, l’arte non si sofferma più sul volto umano o sulla grazia naturale o sull’espressività delle posture. Tutto è solo carne. Si parla del corpo come se fosse una macchina e ci si preoccupa delle sue “prestazioni”.
Anche per quanto riguarda il sesso, in questo tipo di cultura non c’è più alcuna meraviglia, nessuna gratitudine dell’uomo verso la donna e della donna verso l’uomo. Anzi, c’è ingratitudine, impazienza, riluttanza a sopportare i difetti del sesso opposto, il che si manifesta nella sterilità volontaria, che assume tre forme. In primo luogo, l’odio o la paura della propria fertilità. In secondo luogo, il rifiuto del matrimonio, o la totale mancanza di interesse nei suoi confronti, che si tratti sia del matrimonio ordinario tra un uomo e una donna, sia del matrimonio spirituale di tipo religioso. In terzo luogo, abbiamo l’adesione a un falso matrimonio mediante una falsa unione sessuale: la perversione deliberata e sacrilega delle proprie capacità sessuali, che è come gettare il seme della vita in una fogna, luogo di rifiuti e decomposizione.
E veniamo ai bambini. Coloro che non si fanno problemi nello schiacciare e smembrare quel bambino incredibilmente bello nel grembo di sua madre, sicuramente non hanno scrupoli a invadere il rifugio della beata innocenza di un bambino durante il periodo in cui i suoi desideri sono dormienti o latenti, quel lungo periodo in cui i bambini hanno bisogno di imparare chi e cosa sono, per essere pronti un giorno a diventare mariti e padri, mogli e madri sicuri di sé. Gesù ha parole dure per coloro che scandalizzano i più piccoli, ma chi ci pensa? Una cultura morente è ansiosa di inglobare i bambini nella corruzione e nell’edonismo insensato. Una disgustosa drag queen che insegna ai ragazzini come ripiegare i testicoli all’interno del corpo e annodarli: ecco il simbolo di questa cultura.
Una cultura morente non produce alcuna arte degna di questo nome. Poiché niente è sacro, ecco la noia che grava sull’anima. Da che cosa dovremmo essere ispirati? Chi perde il divino perde anche l’umano. L’arte di una cultura morente non perde solo l’eccellenza. Interi generi di arti scompaiono, perché a nessuno importa più. Nessuno è interessato ad apprendere un’arte con pazienza ed errori. Molte delle competenze richieste vengono dimenticate. Artisti e architetti si rivolgono all’orribile, al brutale e all’inumano.
Una cultura morente uccide non solo i bambini nel ventre delle madri, ma anche gli antenati. Poiché, sotto sotto, li guarda con invidia, prende in giro i grandi uomini del passato, certamente imperfetti ma capaci di costruire non solo per loro stessi, ma anche per la posterità. Si diverte a trasformarli in mere leggende da negare. Le statue cadono nelle piazze pubbliche perché sono già cadute nei cuori degli uomini. Tutto il passato di un popolo deve essere calpestato, forse addirittura l’intero passato dell’umanità, perché non è un dono ma solo un peso. Di contro, i progetti utopici abbondano, perché le costruzioni utopistiche si fondano sull’odio per ciò che è.
Anche l’umorismo in una cultura morente è grigio, fine a sé stesso. Non esprime gioia, ma noia.
Fuori, nelle strade, non ci sono bambini che giocano. Le chiese sono vuote. Le istituzioni sono deboli. La fiducia è scomparsa. Dante identifica la natura dell’inferno come la perdita della speranza, la virtù teologale che confida nelle promesse di Dio. La cultura morente magari usa ancora la parola “speranza”, ma nessuno ci crede più. Un ottimismo grottesco ha preso il posto della speranza, non invocando perdono, redenzione e rinascita, ma giudicando il passato in modo spietato e cianciando di un cambiamento vago e senza direzione, un cambiamento qualsiasi, come quello invocato da un malato che nel suo letto si gira e rigira cercando di trovare un sollievo che non arriva mai. Privi di speranza, perché privi di fede e di amore, si è disposti ad accettare qualsiasi fiducia, proveniente dalla tecnologia o da qualche nuovo marchingegno politico. Nella cultura della morte si chiede la libertà di nutrirsi, annoiarsi e riempire le nostre ore vuote come desideriamo, ma a nessuno importa la vera libertà di un’anima che lotta nella grazia per avvicinarsi a Dio.
Solo Dio può trasformare anime morte in anime viventi, ma oggi si preferisce credere alla grande bugia secondo cui nulla è sacro, piuttosto che accogliere il dono della vita assumendone la responsabilità.