Festa della mamma? Ma se la madre sta scomparendo…

di Laura Dodsworth

Qualche pensiero in vista della festa della mamma (che nel Regno Unito cade nella domenica chiamata Mothering Sunday, la quarta domenica di quaresima, tre domeniche prima di Pasqua).

La famosa femminista e autrice Chimamanda Ngozi Adichie ha recentemente rivelato che i suoi gemelli sono stati portati in grembo e partoriti da una madre surrogata. Immediate le speculazioni. Se alcuni suggeriscono problemi di fertilità, dato al momento della nascita Adichie aveva quarantasette anni, altri puntano il dito sulla sua carriera. In un’intervista alla BBC del marzo 2025, lei stessa ha detto che la gravidanza del suo primo figlio, nel 2016, le causò un “terrificante” blocco dello scrittore. Forse, nel caso dei gemelli, ha voluto evitare di pagare lo stesso prezzo fisico ed emotivo? Non lo sappiamo. Ma la sua decisione solleva una domanda scomoda: cosa è successo alla maternità ai nostri giorni?

Le madri stanno scomparendo. Non in senso letterale, ovviamente. A meno che le grottesche fantasie techno sugli uteri artificiali non si avverino, ci saranno sempre donne che partoriranno e cresceranno figli.  Ma nella legge, nel linguaggio, nella medicina e nella cultura il ruolo della madre viene eroso sempre di più, con l’aavanzare della maternità surrogata e delle tecnologie riproduttive artificiali insieme all’ideologia di genere e al sistematico declassamento di cosa significhi essere una madre.

Nel Regno Unito vengono proposte riforme legali per rendere più facile per i “genitori intenzionali” prendere immediatamente in custodia un bambino dopo la nascita, privando di qualsiasi diritto materno la donna che ha portato in grembo e partorito il bambino. Nel frattempo, negli Stati Uniti miliardari e celebrità bypassano la gravidanza in favore della gestazione retribuita. Khloe Kardashian, Paris Hilton e Chrissy Teigen hanno tutte fatto ricorso a madri surrogate, esaltandosi per i loro bambini su Instagram ma con scarso riconoscimento delle donne che li hanno portati in grembo.

Anche la parola “surrogata” è problematica. Una donna, una madre, è ridotta a una cosa, una funzione, un mezzo, un servizio da pagare. È un linguaggio che fa della donna una macchina, che la spoglia della sua identità e del suo rapporto con il bambino che ha portato in grembo. In realtà la surrogata è una madre a tutti gli effetti, ma il linguaggio dell’industria della maternità surrogata la disumanizza deliberatamente, rendendo più facile ignorare la sua esperienza e la sua perdita.

La maternità surrogata commerciale non è un atto di benevolenza. Diciamolo: è un mercato, e come tale è guidato dal profitto. Le donne, spesso le donne più povere – perché questa è la verità – affittano i loro uteri a beneficio dei ricchi. Il lavoro biologico, emotivo e fisico della gravidanza viene monetizzato e la madre è ridotta a una “portatrice gestazionale”.

Questo non è progresso, questa è mercificazione. Ancora peggio, i bambini sono in vendita. In questo modello, pertanto, la maternità surrogata commerciale è indistinguibile dalla vendita di bambini. Chiunque sia abbastanza ricco può comprare un bambino.

Allo stesso tempo, la parola “madre” è cancellata. Se frequentate i social media ve ne sarete accorti. Nei servizi di maternità del Regno Unito il Brighton and Sussex University Hospitals NHS Trust ha sostituito “madre” con “genitore che partorisce”, e il General Medical Council ha silenziosamente cancellato dalle sue linee guida sulla maternità ogni riferimento alle “madri”

Il cambiamento, guidato dall’ideologia transgender, è evidente: ridurre la maternità a un processo funzionale e meccanico.

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Nell’immagine: sir William Rothenstein, Mother and Child, 1903

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