Cronache dalla grotta / Di leoni, unicorni e microbi

di Rita Bettaglio

Libera me de ore leonis, et a cornibus unicornium humilitatem meam: salvami dalla bocca del leone, e la mia umiltà dalle corna dell’unicorno. Così l’introito della Messa della domenica delle palme.

Mi piace molto l’introito della Messa e sovente non riesco ad andare oltre nella lectio. È sempre un grido a Dio, un grido accorato, il grido del popolo cristiano e di ognuno di noi. Ergo, anche della misera cavernicola, ora bloccata nell’antro da infido microbo.

Ful, il cane di don Camillo, sorpreso con le fauci debordanti cibo tentatore di Peppone, si sentì apostrofare severamente: “Venduto a Mosca!”. Che dire a un invisibile bestiolina che m’impedisce di partecipare alla Settimana Santa? Nulla, perché i virus sono non esseri e non hanno gli occhioni di Ful. Bisogna solo combatterli con accortezza e decisione.

Mi ha sempre affascinato il pensiero che, mentre il malcapitato sta nel letto in preda alla febbre, corretta reazione dell’organismo, dentro di lui si svolge una lotta senza quartiere tra aggressori e aggredito. Tutte le forze del corpo si dirigono laddove c’è bisogno, chiamate a raccolta da un espertissimo generale. Ma da dove verrà mai questo generale, come farà a sapere dove, quando e come intervenire e far convergere le truppe? Chi lo avrà istruito?

Non allarmatevi: non è la febbre che mi fa sragionare…

Mi sono sempre domandata come faccia una cellula a sapere quando duplicarsi o un seme a germogliare, o gli uccelli a sapere quando è il momento di migrare: chi glielo dice?

Quando medicine ce n’erano poche, si applicavano i rimedi conosciuti per aiutare l’organismo a reagire, confidando in Dio e in quella che si chiamava la vis riparatrix naturae, la forza riparatrice della natura. In quanti film, in quanti racconti abbiamo sentito al capezzale di un malato: “Se supera la notte, siamo fuori pericolo”, e le donne fuori a pregare. Nessuno rimpiange la carenza di medicine, ma la confidenza in Dio e nella reazione della natura sì: quella è da rimpiangere. Perché se avessimo le medicine di adesso e la fede di allora, le montagne si sposterebbero.

Ho fatto per trent’anni l’infermiera e posso dire, per averlo visto, che la vita è sempre più forte della morte, che siamo fatti per vivere e non per morire.

Certo, vivere non è facile: torniamo alle fauci del leone e ai corni degli unicorni. La quotidianità è la lotta, anche all’interno del nostro stesso corpo: lotta tra la luce e le tenebre che cercano d’inghiottirla. Si dice che ogni giorno sorgano in noi cellule atipiche, malfatte, che potrebbero dar origine a tumori. Ogni giorno. Ma il nostro sistema immunitario (da solo dimostrerebbe non solo l’esistenza di Dio, ma la sua costante Provvidenza) le stana e le elimina. Non più con l’efficienza di prima del peccato originale, certo, ma ancora il nostro organismo funziona egregiamente e nasciamo adatti a vivere in questo mondo.

La morte è entrata nel mondo con il peccato d’Adamo, e con questo il male fisico e morale.

Sono proprio questi della Settimana Santa i giorni del culmine della battaglia. Nell’imminenza dell’agone decisivo, Gesù entrò nel giardino del Getsemani con Pietro, Giacomo e Giovanni e disse loro: Tristis est anima mea usque ad mortem: sustinete hic et vigilate mecum (Mt 26, 37), l’anima mia è triste fino alla morte: restate qui e vegliate con me. L’evangelista san Luca aggiunge alcuni particolari di grandissima importanza: Apparuit autem illi angelus de cælo, confortans eum. Et factus in agonia, prolixius orabat. Et factus est sudor ejus sicut guttæ sanguinis decurrentis in terram (Lc 22, 43-44). Gli apparve allora un angelo dal cielo a confortarlo. In preda all’angoscia, pregava più intensamente; e il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadevano a terra.

Il sudore di sangue di Gesù segna il suo caricarsi di tutti i peccati: passati, presenti e futuri. Il suo fiat di sangue. Anche noi, stoltamente, alle volte, di fronte a qualcosa di particolarmente ostico, diciamo: “Mi ha fatto sudare sangue”. Ma noi non lo abbiamo mai fatto realmente.

Noi rimaniamo impegnati coi nostri personali leoni dalle fauci spalancate, con le corna furenti e crudelmente minacciose. Poca roba, al confronto. Tantissimo per una cavernicola messa ko da una misera influenza.

Conoscendo il figmentum nostrum, la terra di cui siamo fatti, san Benedetto termina la sua Regola con questa esortazione da padre premuroso: “Chiunque tu sia, dunque, che con sollecitudine e ardore ti dirigi verso la patria celeste, metti in pratica con l’aiuto di Cristo questa modestissima Regola, abbozzata come una semplice introduzione, e con la grazia di Dio giungerai finalmente a quelle più alte cime di scienza e di virtù, di cui abbiamo parlato sopra. Amen” (RB 73, 8-9).

Giungere alle più alte cime non spetta a noi deciderlo, ma la sollecitudine e l’ardore sono alla nostra portata. Sempre ricordando che siamo servi inutili, che un bambino appena battezzato è più vicino al Regno dei cieli di noi. Fossimo pure papi, vescovi, abati o padri del deserto.

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Per contattare la cavernicola, potete scrivere a: cronachedallagrotta@gmail.com

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