In morte di Bergoglio

di Aldo Maria Valli

Proprio in questi giorni ho terminato la lettura di Bergoglio. Una biografia politica, il libro che Loris Zanatta, forse il maggiore esperto italiano di America Latina, ha dedicato alla vicenda di Jorge Mario Bergoglio, dalla nascita in Argentina nel 1936 ai nostri giorni.

Mi sembra significativo che un bilancio sulla vita e l’opera di Bergoglio venga fatto in termini politici. Bergoglio, come emerge bene anche dal libro di Zanatta, è stato prima di tutto un politico, un gesuita che ha vissuto la sua missione come la vive un militante. Militante di che tipo? Per capirlo occorre uscire dalle logiche nostre, europee, e immergersi nel mondo argentino. Ecco così che la figura di Bergoglio si staglia come quella di un peronista, sebbene la qualifica dica poco in sé, in quanto ci sono stati peronisti di vario orientamento. Diciamo meglio: un populista. Colui che ha sempre fatto dell’idea di popolo la sua stella polare. Idea cavalcata in termini politici, per accrescere il proprio potere e la propria influenza, fino all’elezione al soglio di Pietro al posto di Benedetto XVI, con il quale non ebbe mai la benché minima affinità. E come l’avrebbe potuta avere un populista argentino rispetto a un teologo bavarese?

La lettura del libro di Zanatta mi ha confermato nell’idea che la parola con la quale si può riassumere la parabola di Bergoglio è soprattutto una: ambiguità. In Argentina si diceva: mette la freccia a sinistra per girare a destra.

Da monsignore e poi da cardinale, così come da papa, gli succedeva spesso di dare per reali le sue convinzioni (la Laudato sì ne è un esempio lampante). E non si sentiva in obbligo di fornire spiegazioni. Coltivare pregiudizi in ogni campo, compresa l’economia, e scambiarli per realtà fattuali divenne strategia. Predicare bene senza farsi carco di nulla. Questo il suo segreto. Quando parlava a braccio era spericolato. Pregiudizi e scarse conoscenze venivano a galla, ma sfruttò la stampa tremebonda e desiderosa di legarsi al carro del vincitore. In effetti, da buon populista, si servì abbondantemente dei media. Ma è evidente che i media si sono serviti altrettanto abbondantemente di lui.

Nella sua insalata mista, in quel fiume di parole che rischiavano spesso di diventare chiacchiera da bar, c’era una certa dose di narcisismo. Gli piaceva essere così com’era. Non aveva complessi. Il populista si compiace anche della sua superficialità. Il politico non è tenuto a rispettare il principio di non contraddizione.

“Campione a tenere i piedi in diverse staffe” lo definisce Zanatta. Contraddittorio per programma. “Viaggerò poco” disse con il fare umile all’inizio del mandato. Poi viaggiò moltissimo. “Non mi piacciono le interviste” dichiarò mostrandosi ritroso. Poi fu il più intervistato.

Camaleontico, come Perón. Il papa del “sì però ma anche no, no ma anche sì”, come scrissi in tempi non sospetti attirandomi gli strali dei bergogliani e di tanti adoratori del papa arrivato dalla fine del mondo.

Di notte incendiario, di giorno pompiere, dice ancora Zanatta. Piegare i fatti alle sue convinzioni fu la costante. E qualcuno ancora sostiene che ci fu continuità con Ratzinger, il limpido e rigoroso professore tedesco!

Parlava dei poveri. Ne parlò moltissimo. Voleva una Chiesa povera e per i poveri. Ma fu essenzialmente pauperista e fece dell’idea di povertà (anche questa generica) una bandiera politica.

Predicò la misericordia. Ma fu durissimo contro chi si metteva di traverso sulla sua strada, contro chi obiettava. Fece della sinodalità la sua bandiera, ma fu papa re, sprezzante persino del diritto.

Ho notato in Bergoglio un’autentica pulsione totalitaria. Mentre qui lo esaltavano (che bello, che bravo il papa arrivato dalla fine del mondo) vedevo stagliarsi accanto a lui l’ombra non solo di Perón ma anche di Fidel Castro. Stessa pasta.

Quel suo “buonasera” iniziale fece scalpore e molti andarono in brodo di giuggiole. Qualcuno subodorò l’inganno. In Argentina non pochi scossero il capo: rieccolo!

Farsi piccolo per farsi forte, per conquistare il potere. Di nuovo un giudizio di Zanatta. Lo vedemmo quando, nel conclave del 2013, parlò volutamente poco e volutamente in tono dimesso. Strategia. Quando l’arcivescovo di L’Avana gli chiese il testo del discorso, rispose che non c’era. Ma il giorno dopo glielo portò, scritto e stampato, e lo autorizzò a diffonderlo.

Più astuto che originale, si fece spazio anche grazie all’ignoranza dilagante. Diceva spesso banalità, ma nel mondo della banalità chi si comporta così riceve applausi.

Davanti a un’analisi attenta, i suoi esercizi retorici, dall’economia alla liturgia (che comunque non è mai stata tema per lui interessante se non in termini di tattica ecclesiastica) non reggevano. Ma che importava? Questo non è il tempo delle analisi attente.

Subito dopo l’elezione, nel 2013, fui ospite da lui per una giornata, a Santa Marta. Sembrava felice, per niente timoroso davanti all’incarico. Sorrideva, era ciarliero. Era chiaro che nei rapporti interpersonali ci sapeva fare. Ero un giornalista, il vaticanista del Tg1. Mi mostrò come viveva la sua vita di tutti i giorni, ma disse no alla telecamera. Mi ingolosì. La sua pietà popolare (la devozione per san Giuseppe) mi parve autentica. Mi parve di essere non davanti al nuovo papa, ma al rettore di un seminario. Non possedeva la gravitas. Simpatico? Sì, mi risultò simpatico. Vissi una giornata straniante. Aveva voluto manipolarmi?

In Argentina si dice che non c’è nulla di più simile a un peronista di un gesuita. Oggi diciamo addio al gesuita peronista o, se preferite, al peronista gesuita. I caudillos populisti spesso dietro di loro non lasciano che macerie.

Aldo Maria Valli:
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