A scuola di giornalismo. Cronaca di una lezione ricevuta
«Scusi, ma lei si è mai vergognato per qualcosa che ha scritto?».
Accidenti! Ecco una vera domanda! Solo un ragazzino può fartela.
L’aula è piuttosto piccola e circa ventiquattro occhi mi scrutano. Il giornalista, ovvero il sottoscritto, è stato invitato per parlare del suo lavoro, di come si fa un giornale e un telegiornale, di come nasce una notizia, come viene scelta e perché.
I circa ventiquattro occhi appartengono a Mario, Alessandro, Marco, Hamed, Francesco, Federico, Elia… In genere evito di partecipare a incontri pubblici: troppi dibattiti, troppe parole, troppe polemiche. Quando però l’invito arriva da giovani e giovanissimi non so dire di no. In questi ragazzi c’è un misto di sincerità, freschezza, sana sfacciataggine: un cocktail altamente educativo per un vecchio cronista. Misurarsi con questi occhi, con questi sguardi, vuol dire mostrarsi per come si è, senza barriere, senza mistificazioni. E c’è sempre da imparare. Perché loro hanno antenne sensibilissime e se tu non sei sincero, se non dici le cose come stanno, avverti immediatamente il biasimo che arriva da quelle faccette. Per cui niente sotterfugi, niente giochetti.
La domanda sulla vergogna mi raggiunge dritta al cuore e al cervello. Attenzione, allarme rosso. Qui non si scappa. In una manciata di secondi ripasso qualcosa come quarant’anni di articoli, servizi, libri, una montagna di parole. Quante ne ho dette, quanto ne ho scritte! Là dentro, là sotto, c’è qualcosa di cui mi vergogno?
I ragazzi si accorgono che non ho la battuta pronta. Non mi esce né un sì né un no. Mugugno qualcosa come un «uhm… vediamo…», «beh, ecco…», e alla fine sputo fuori la sentenza su me stesso: «Vergognarsi vergognarsi direi di no… Però certamente un dispiacere l’ho provato… sì, più volte. Per qualcosa che ho scritto e forse ha ferito qualcuno. Per qualcosa di sbagliato, di non corretto, di non verificato a sufficienza…».
Gli occhi mi scrutano. Sembra che ne escano raggi capaci di farmi la radiografia. Anch’io scruto loro. L’esame mi sembra passato, per ora. La risposta probabilmente non li ha convinti del tutto, però intuisco che hanno deciso di darmi credito. Mi illudo?
Hanno scritto le domande su un foglio e poi ogni domanda è stata ritagliata in una strisciolina che per il sottoscritto equivale a un proiettile. Avanti un altro.
«Perché hai scelto questo lavoro?».
Qui me la cavo un po’ più agevolmente. Dico che non sono stato io a scegliere il giornalismo, ma è come se il giornalismo avesse scelto me. Fin da bambino non ho mai desiderato altro. Perché? Mistero. Forse perché andavo bene in italiano e la signora maestra (che in aritmetica mi diceva che ero una «bestia feroce») dopo un tema mi faceva i complimenti. Forse perché in casa mia sono sempre entrati i giornali. Forse perché la possibilità di comunicare mi sembra il dono più bello che il buon Dio abbia fatto all’uomo. L’unica cosa certa è che ancora adesso mi riesce difficile considerarlo un lavoro, visto che è la mia passione di sempre. Incredibile, poi, è essere pagato per coltivare la propria passione, ma non diciamolo troppo forte.
Sotto a chi tocca.
«Ti hanno mai preso di mira mafiosi, politici o criminali?».
Noto la categoria dei politici infilata tra mafiosi e criminali (questi ragazzini hanno già capito molte cose). No, a dire il vero no, non sono stato preso di mira. Forse perché non ho mai fatto il cronista politico, forse perché la nera l’ho fatta per pochissimo tempo, molti anni fa. Mi verrebbe da dire che adesso sono preso di mira da altre categorie di persone, ma il discorso si farebbe lungo e complicato. Capisco che vogliono sapere se sono mai stato condizionato. Apertamente, no. Sottilmente, qualche volta. O magari lo sono stato e non me ne sono nemmeno accorto. Dovrei aprire un discorso riguardante l’autorevolezza, che secondo me resta l’arma più forte contro ogni tipo di condizionamento, ma temo che per i miei giovani interlocutori si andrebbe su un terreno impervio. Certamente la questione della libertà è decisiva. Come restare liberi? Discorso lungo. Si tratta sempre e comunque di fare i conti con la coscienza. E quindi la coscienza va formata. Come diceva il cardinale Martini, comunicare è questione morale prima che tecnica. Ci preoccupiamo tanto di acquisire competenze tecniche, ma lasciamo che la coscienza morale resti ineducata. E come dimenticare che il condizionamento più grande è quello che viene da se stessi? Come dimenticare che la censura più pericolosa è l’autocensura? Me la cavo citando il grande inviato polacco Ryszard Kapuscinski: «Non si può essere bravi giornalisti se non si è uomini buoni». Sguardi un po’ straniti: non si aspettavano che un giornalista potesse tirare in ballo la bontà. Comunque mi sembra che abbiano afferrato.
«Qual è il posto più strano o più lontano dove sei stato per lavoro?».
Difficile ricordare dopo decenni di viaggi. Mi viene in mente, chissà perché, il Kazakistan, con la sua immensa steppa, migliaia e migliaia di chilometri verso il nulla, una jeep lungo una pista polverosa. Giovanni Paolo II andò laggiù per confortare i pochissimi cattolici di quella terra lontana e sconosciuta. Io, con l’amico Gigi, cameraman inseparabile, decisi di fare una deviazione: non solo la capitale, non solo l’ufficialità, ma il paese nascosto. Raggiungemmo un villaggio isolato e apparentemente disabitato. Niente antenne televisive, niente negozi, niente di niente. Bussammo a un’isba, ci vennero ad aprire due vecchiettini, marito e moglie. Con l’aiuto dell’interprete parlammo del papa. I due vollero togliersi una curiosità: è vero che il Vaticano è un’isola in mezzo al mare? In segno di ospitalità ci offrirono una fetta di anguria. Dico sempre che è inutile andare a cercare gli extraterrestri quando i nostri mondi, già qui, su questo pianeta, possono essere così lontani.
I ragazzi sembrano meditare su Kazakistan e anguria: forse si aspettavano qualcosa di più avventuroso, ma in fondo hanno invitato un vaticanista, mica un Rambo della notizia.
Seguono domande a raffica. Si guadagna tanto a fare il giornalista? Dipende. È faticoso? Dipende. Ci mette tanto a scrivere un articolo? Dipende. Le capita di arrabbiarsi per quello che deve scrivere? Dipende. Sei mai strato bocciato? Bocciato mai, rimandato una volta (ovviamente in matematica). Sei mai andato in chiesa a pregare con il papa? Sì. Che vuol dire fare il vaticanista? Dare le notizie sul papa, la Città del Vaticano, la Santa Sede, la Chiesa cattolica. Bisogna essere per forza cattolici? No. Per quale squadra fai il tifo? Inter! (seguono i buuh di milanisti e juventini).
Peccato che l’ora voli via così in fretta. Tante striscioline restano sui banchi senza che il proiettile sia partito. Uno degli insegnanti mi consegna il foglio con l’interrogatorio completo. I ragazzi volevano anche sapere se è tutto vero quel che si dice in televisione. Magari la prossima volta dedichiamo un incontro a questa sola domanda, va bene?
In zona Cesarini un ragazzo chiede se sul giornalino scolastico può scrivere un articolo dedicato al rap, la sua passione. Ma certo che puoi! Tutto ciò che vi appassiona è interessante. L’importante è che scriviate come parlate: siate sinceri e spontanei, non cambiate linguaggio. Se riuscite a trasmettere una passione, è fatta.
Adesso aranciata e dolcetti per tutti. La mia soddisfazione più grande? Che tutta la compagnia sia rimasta in ascolto, incuriosita e partecipe, che nessuno abbia guardato la finestra o la porta con malcelato desiderio di fuga. Considerato che la soglia di attenzione, nei cosiddetti millennials, è molto prossima allo zero, mi sembra un risultato di cui andare orgoglioso.
Impressione finale? Non fidatevi di chi dice che il computer e l’uso dei social li ha resi superficiali. Questi ragazzi la sanno lunga. Penso che il grande Giuseppe Prezzolini li avrebbe iscritti di diritto alla Società degli ápoti. Ovvero di quelli che non la bevono.
Aldo Maria Valli